Archivio Orvietosi Archivio anni 2002-2012: NOTIZIE
NOTIZIE CORSIVI

Ricomporre la società orvietana lavorando all'interno e puntando sui giovani, senza perdere di vista i grandi problemi epocali

A Destra e a Manca #99 Affermare un codice etico che raccolga valori come "prevalenza del bene comune; coraggio della verità; premio alle capacità e alle competenze; rifiuto dei compromessi che prefigurino danni per la comunità; dovere di trasparenza e informazione; dovere di verifica delle migliori soluzioni possibili, anche su esempi nazionali e internazionali; rifiuto di alienare i beni pubblici per tamponare i buchi di bilancio; ecc". Contributo di Mario Tiberi 

Caro Pier,
domenica 21 agosto su vari siti e giornali si potevano leggere commenti ammirati di un articolo comparso il giorno prima sul Corriere della sera a firma del prof. Alberto Melloni (ordinario di storia del cristianesimo all'Università di Modena-Reggio Emilia) dal titolo Segnare la svolta di un'epoca. Le parole che mancano ai cattolici. In effetti in esso si legge un'analisi dell'epoca che viviamo che anch'io condivido. Bastino queste frasi iniziali: "La svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce. Lo stile di vita tenuto dall' Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio, è finito. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. È una «krisis» nel senso del Vangelo: un «giudizio». Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo. Dunque solletica le paure, incoraggia i minimizzatori, svela la statura dei sovrani, denuncia la sordità di chi ha fatto spallucce per anni, chiama intelligenze politiche e spirituali dal domani". Straordinaria sintesi, non è vero? Qui si ragiona non di quisquilie, ma del nostro essere nel mondo.
Non è tuttavia l'unico aspetto interessante. Infatti, questa analisi serve al prof. Melloni per affermare che "in questo rimestarsi della storia (per ora incruento, come nel '29 e nell''89), la Chiesa è parca nel dire le parole che pur possiede". Il fatto è che quelli che viviamo non sono né i tempi di Gregorio Magno né quelli di Giovanni XXIII°, ma solo "i tempi nostri, nei quali la generazione del benessere più prepotente sente di lasciare ai propri figli le macerie di un disastro politico e morale. E in questo tempo la Chiesa, nel senso più ampio del termine, è come ritratta: articola lentamente le consunte condanne degli «ismi», sussurra cose ovvie o interessate, quasi che anche per lei fosse così poco leggibile una realtà che urla da ogni orizzonte". Conclusione: è alla Chiesa come communio che spetta il compito di leggere questo nostro tempo e di uscire dall'attuale afasia con parole irrituali e di speranza. Fin qui Alberto Melloni.
Emanuele Macaluso, riprendendo e commentando da par suo questo articolo, si chiedeva su "Il Riformista" del 21 agosto che cosa succede se proviamo a trasferire il ragionamento del prof. Melloni nella sfera politica e della cultura politica e la risposta che dava è: "la delusione, l'amarezza, l'inquietudine, si può esprimere in disperazione". Conclusione: perché questo non avvenga la politica deve ritrovare la dimensione delle larghe vedute, la capacità di interpretare i cambiamenti e di indicare prospettive credibili. Oggi purtroppo non c'è un soggetto capace di tanto.
E, caro Pier, come si fa a dargli torto? Nel turbinio dei mutamenti del mondo si intravede forse un qualche punto che resti fermo per un tempo sufficiente a fissarsi nella mente talché vi si possa agganciare un progetto di speranza? Sono bastate le crisi economiche e sociali degli ultimi tre anni a spazzar via l'idea di un mondo nuovo che avanza sicuro e a ricondurre la politica, come dice Macaluso, "negli antichi alvei delle 'manovre economiche', dell'aggiustamento dei conti e dei bilanci statali". Certo, la politica non è poesia, e ci mancherebbe altro che pretendesse di esserlo! Ma non può nemmeno essere puro calcolo senza speranza! Ad esempio, io sinceramente non capisco come, nella situazione attuale, non ritorni il sogno europeo e non emerga nessuna personalità di rilievo che si caratterizzi per il coraggio di affermare che è questo il momento di un salto dell'Europa verso l'unità politica, unica vera speranza di uscire stabilmente dalla crisi sociale e dei mercati.
Se osserviamo poi la situazione italiana, come si fa a non gridare che la politica non può essere il fare e disfare senza disegno, senza costrutto, difesa del puro interesse di mille caste, e insieme annuncio, manovra, spettacolo vuoto, demagogia? Come si fa a coltivare gli orticelli (lo dimostra l'indecoroso balletto sulla manovra economica di questi giorni) nel momento in cui è il Paese che rischia, proprio nello stesso anno in cui celebra il centocinquantesimo anniversario della sua unità, non solo il default (l'insolvenza finanziaria), ma lo sgretolamento?
E che succede se passiamo alla situazione nostra, quella orvietana e umbra? Per l'Umbria qualche elemento antidepressivo esiste, se consideriamo ad esempio il pur timido inizio di una riforma dell'organizzazione istituzionale subregionale e l'emergere altrettanto timido della consapevolezza che ormai l'Italia di mezzo non è più l'idea stralunata di qualche sognatore di professione, ma la prospettiva reale in cui collocare sia le operazioni politiche che quelle programmatiche con incluso il senso del futuro. E tuttavia che depressione se si considera il dibattito che si è sviluppato non appena si è affacciata la prospettiva ravvicinata dell'abolizione della Provincia di Terni! Mi pare difficile negare che in generale si è vista quasi solo autodifesa e sguardo corto, comunque pochissima autoanalisi delle responsabilità per il tempo perduto dietro alle chimere di un localismo suicida e con in testa un centralismo a cascata (peruginismo, ternanismo, orvietanismo. ecc.).
Per Orvieto, se si eccettua la nostra rubrica, che cosa possiamo pensare come elemento antidepressivo? Ben poco, se cerchiamo elementi forti. Invece mi pare ci sia molto in quanto ad aspetti depressivi. Li ho, li abbiamo, sottolineati in così tante occasioni che non vale la pena tornarci sopra ancora una volta. E tuttavia va ripetuto che ai danni prodotti da un centro sinistra miope si sono aggiunti quelli di un centro destra che ha promesso risanamento, nuovo modo di governare e sviluppo, e invece si è avvitato in politiche improvvisate e contraddittorie di pura sopravvivenza.
Che fare allora? Cedere alla depressione fino alla disperazione, o raccogliere il pressante invito del prof. Melloni al coraggio di interpretare il nostro tempo senza pregiudizi, uscendo dagli schemi castranti e usando parole irrituali? Io sono ovviamente per questo atteggiamento mentale e per questo modo di stare nel mondo. Qui ed ora. Anche se, e in realtà direi proprio perché, vedo che a tutti i livelli ad un governo minato sul piano essenziale della credibilità corrisponde una (o più di una) opposizione incapace di costruire un'alternativa appunto credibile.
Non ci sono soluzioni precostituite, non ci sono certezze bell'e pronte, e c'è un mare da attraversare. Ma abbiamo un patrimonio straordinario da utilizzare, materiale e spirituale. Abbiamo riserve culturali e morali da spendere. Abbiamo il dono dell'intelligenza da esercitare per cercare le migliori soluzioni per il bene comune.
Non fasciamoci dunque la testa prima del tempo, non fermiamoci, facciamo il nostro dovere qualunque sia il nostro orientamento culturale e qualunque sia la nostra posizione sociale e il nostro ruolo. Senza farci ingabbiare da schieramenti e schemi.
Ecco, caro Pier, a me sembra che abbiamo ragioni sufficienti per impiegare bene il nostro tempo. Aspetto però da te il necessario conforto. E ti faccio una proposta partendo dall'assunto che abbiamo la necessità e il dovere di ricostruire il tessuto di una politica al servizio della comunità. Possiamo trarre ispirazione sia dalle migliori tradizioni della cultura politica sia dalle più mature esperienze delle democrazie occidentali sia dalla nostra stessa esperienza. Ed è bene partire dal basso, dal luogo di vita, che è sia quello piccolo (il paese, la città), sia quello grande (la patria, le patrie, ), e che però in ogni caso oggi ha senso solo  se vissuto nella forma della cittadinanza multipla.
Perciò perché non scrivere - ecco la proposta -, noi, i nostri amici, altri, il codice etico essenziale da proporre a chi, a diverso titolo e livello, intende impegnarsi nella vita della comunità, in particolare nelle istituzioni? Non un codice morale, tanto meno moralistico, ma di etica pubblica, che perciò reciti i principi essenziali dell'impegno civico, sulla cui effettiva coerenza giudicheranno poi i cittadini. Ad esempio: prevalenza del bene comune; coraggio della verità; premio alle capacità e alle competenze; rifiuto dei compromessi che prefigurino danni per la comunità; dovere di trasparenza e informazione; dovere di verifica delle migliori soluzioni possibili, anche su esempi nazionali e internazionali; rifiuto di alienare i beni pubblici per tamponare i buchi di bilancio; ecc.
Tuo Franco

Caro Franco,
non mi è mai passato per l'anticamera del cervello che la nostra rubrica fosse solo ginnastica mentale. Se ci preoccupasse soltanto lo stato delle nostre meningi non avremmo fondato il COVIP, io non starei ancora nel consiglio comunale a cercare di dare qualche buon consiglio e tu staresti tranquillo nel tuo ufficio di dirigente scolastico a mantenere il livello dell'istituto e a tenere in ordine le carte per il successore, che aspetta il tuo ritiro e fantastica sulle performance con le quali stupirà il mondo. In effetti la rubrica, come ogni altra attività pubblica di ogni persona che si rispetti, mi sembra che esprima l'attaccamento al dovere di fare del nostro meglio per la comunità e di farlo col pensiero, la parola e l'azione. Col pensiero rivolto anche all'Italia, all'Europa e al pianeta, ma legati alla comunità nella quale per scelte personali, ma anche per circostanze della vita che ci hanno reso saggi, abbiamo fissato una dimora tutto sommato felice.
È un piacere per l'intelletto leggere le riflessioni sulla grande crisi epocale di spiriti elevati come Melloni e Macaluso. E tali letture sono fonte di ispirazione anche per la lettura delle cose più vicine.
Ma proprio per rispondere al tuo auspicio di una iniziativa di carattere etico, cioè alla rifondazione delle basi dell'impegno civile, non posso sottrarmi al mio carattere che, se il termine non fosse ormai divenuto ambiguo e non fosse proibito dalla political correcteness, definirei "reazionario". Perciò non posso non citare uno dei pensatori da me preferiti, quel Gustave Thibon (1903 - 2001), detto il "filosofo contadino", che, già qualche anno prima che noi nascessimo, aveva fatto il pelo e il contropelo alle società occidentali e aveva previsto la crisi che stiamo attraversando e dalla quale, secondo lui, non saremmo usciti senza  una rivoluzione spirituale.
Trascrivo alcuni brani di un libro composto da vari saggi di Thibon e intitolato "Ritorno al reale".
"Gli uomini non sono nati per amare le grandi cose. O piuttosto sono nati per amare le grandi cose attraverso le piccole. In tutti i campi, l'attaccamento al sensibile e al particolare precede e condiziona l'amore dello spirituale e dell'universale. È questo il senso di una delle frasi più umane, più 'incarnate' della Scrittura: 'Chi non ama suo fratello che vede, come potrà amare Dio che non vede?' La moltiplicazione degli scambi tra ambienti diversi, la rottura delle tradizioni familiari e professionali, tutti questi peccati dell'Occidente contemporaneo si alleano per sottrarre ai mortali il senso del loro comune destino. Non basta, perché il grano germogli, che possieda tutta la sua virtù germinativa, gli occorre anche un palmo di terra dove radicarsi. È essenziale, allo scopo di evitare la zuffa generale, il paniere di granchi delle ambizioni scatenate, che, per la grande maggioranza degli uomini, il desiderio di eccellere e di salire rimanga contenuto in un quadro determinato: professione, ambiente sociale ereditario ecc. Soltanto in tal modo si può creare una élite che rimanga attaccata con tutte le sue fibre all'ambiente che ha la missione di difendere e fecondare. Quella pseudo-élite che si serve del proprio ambiente primitivo come di un trampolino per raggiungere potere e onori, ha perso lo spirito della comunità e tende, con il suo esempio, a rovinarlo nelle masse. Il popolo ha bisogno di 'animatori' che lo sostengano e lo rappresentino dall'interno e non di 'manovratori' che lo manovrino e lo sfruttino dal di fuori".
Le parole del filosofo contadino m'incoraggiano a perseverare nell'opera interna di ricomposizione di questo "paniere di granchi" che è diventata la società orvietana, anche se non è possibile evitare di prendere e dare qualche morso.
E le stesse parole mi aiutano a vedere in una luce diversa, superando il fastidio per alcuni tratti di accidia e di parassitismo, il comportamento di quei nostri giovani che stentano ad abbandonare la casa paterna e la città dove sono nati. Invece di incolparci di averli viziati, cerchiamo di comprendere che, in fondo, essi obbediscono a un sano istinto. Se obbedissero alle nostre ambizioni, la città si svuoterebbe di linfa vitale. È quindi a loro che vale la pena di dedicare la nostra vecchiaia, che chiamiamo eufemisticamente maturità.
Confido pienamente nel conforto della tua condivisione.
Tuo Pier


da Mario Tiberi

Amici miei,

             il Vostro dissertare, contenuto nell'odierna edizione di "A destra e A manca", mi invita a nozze. I temi trattati sono gli stessi per i quali, da tempo, sto tentando di avviare una contesa di civiltà fondata sull'Etica delle parole e dei comportamenti pubblici. Contesa non ancora percepita, ma nella quale credo fermamente.
A tal proposito e a guisa di contributo dialettico, mi pregio allegare uno scritto risalente ai primi di Maggio dell'anno in corso e incidente sull'educazione della Gioventù.
Cordialmente.
 
LA PRIMA SPERANZA DI UN POPOLO E' RIPOSTA NELLA CORRETTA EDUCAZIONE
 DELLA SUA GIOVENTU' .


Sarà capitato ad ognuno di noi, almeno una volta durante il peregrinare terreno, di domandarsi perché le persone più intelligenti, nel senso tradizionale del termine, non sempre sono quelle con cui si lavora più volentieri o con cui si stringono amicizie; perché il rendimento scolastico di bambini, dotati di brillante intelligenza, può crollare in maniera drammatica in occasione di difficoltà familiari; perché individui assunti sulla base di specifiche selezioni attitudinali si possono, poi, rivelare inadeguati alle esigenze che impone loro il lavoro; o ancora perché un matrimonio può andare a rotoli anche se il quoziente intellettivo di entrambi i coniugi è elevatissimo.
E, all'opposto, non ci vuole per caso abbondante intelligenza per stabilire solidi rapporti interpersonali, familiari, professionali o sociali?. Certamente sì; solo che l'intelligenza governante settori così decisivi dell'esistenza umana non può essere un'intelligenza qualsiasi, astratta ed estranea alla realtà, ma è una complessa miscela in cui giocano un ruolo predominante fattori come l'autocontrollo, la pervicacia, l'empatia e l'attenzione rivolta agli altri.
In breve, è quel corredo intellettuale e sentimentale che, in ottimali proporzioni, ha consentito ai nostri lontani progenitori di sopravvivere in ambienti ostili e di elaborare le strategie che sono state alla base dell'evoluzione dell'intera umanità e che, nell'odierno, può supportare tutti noi ad affrontare le difficoltà e i pericoli di un mondo sempre più complicato, violento, difficile da decifrare.
La mente razional-passionale consente di governare le emozioni e guidarle nelle direzioni più vantaggiose: è la capacità di capire i sentimenti altrui al di là delle parole e spinge, come una molla possente, alla ricerca di benefici duraturi piuttosto che al soddisfacimento degli appetiti più immediati.
E' indubbio che la società mondiale si sta dibattendo in una crisi profonda, caratterizzata da un netto aumento della frequenza di crimini violenti, di suicidi e di abuso di droghe, soprattutto fra i giovani; tutto ciò indirizza verso una sempre maggiore percezione di allarmanti segnali ammonitori di un'alienazione collettiva e di una disperazione individuale che, se non tenuti sotto controllo, potrebbero quanto prima sfociare in lacerazioni ben più marcate del tessuto sociale.
La tendenza generale della società nel suo complesso è orientata a massimizzare un'autonomia sempre più ampia dell'individuo che, a sua volta, conduce ad una minor disponibilità alla solidarietà e a una maggiore competitività, spesso brutale ("mors tua, vita mea"); tutto questo si traduce in un aumentato isolamento e nel deterioramento dell'integrazione sociale. Codesta lenta ma inesorabile disintegrazione dello spirito comunitario, assieme ad uno spietato atteggiamento di autoaffermazione, compaiono ed esercitano la loro pressione in un momento in cui le tensioni economiche e politiche richiederebbero piuttosto un incremento della cooperazione e dell'attenzione verso gli altri e non certo una riduzione di tale disponibilità.
Accanto a questa atmosfera di incipiente o perdurante crisi sociale, vi sono anche i segni di un crescente malessere emozionale, particolarmente fra i bambini e i giovanissimi. Ciò che colpisce in modo terrificante è l'impennata della violenza tra gli adolescenti; si pensi al giovane che massacrò i genitori a martellate per ereditare il loro patrimonio o, solo per offrire un ulteriore esempio, al branco di ragazzini che uccisero un loro coetaneo per derubarlo e trascorrere così un fine settimana al mare. Trattasi di inequivocabili indicatori segnalanti che molti minorenni stanno avviandosi all'età adulta con gravi carenze relative all'autocontrollo, alla capacità di gestire e dominare le proprie furie interiori, all'estrinsecazione dell'empatia con il rischio incombente di vedersi catapultati verso significative patologie di depressione psichica.
Quali le cause?. Uno dei motivi può essere individuato nel fatto che l'infanzia non è più quella di un tempo. I genitori, rispetto ai loro padri e alle loro madri, sono oggi molto più stressati e sotto pressione per le note difficoltà economiche e costretti a un ritmo di vita assai più frenetico; dovendosi confrontare con una del tutto nuova e aleatoria realtà, hanno probabilmente un maggior bisogno di consigli e di guide per aiutare i propri figli ad acquisire le essenziali capacità umane.
Tutto ciò suggerisce la necessità di insegnare ai bambini quello che potrebbe essere definito lo "alfabeto emozionale", cioè le capacità fondamentali del cuore quale sede classica dei sentimenti.
In tal senso, la scuola potrebbe istituzionalizzare un positivo contributo introducendo programmi di "alfabetizzazione emozionale" che, oltre alle materie tradizionali come la matematica e la lingua, insegnino ai virgulti in crescita le capacità interpersonali essenziali. Oggigiorno queste capacità sono basilari proprio come quelle intellettuali, in quanto servono a equilibrare la razionalità con la compassione intesa nel senso etimologico del termine. Rinunciando a coltivare codeste abilità emozionali, ci si troverebbe ad educare individui con un intelletto limitato: un timone troppo inaffidabile per navigare in questi nostri tempi, soggetti a mutamenti tanto complessi. Mente e cuore hanno bisogno l'una dell'altro!.
E' proprio la moderna neuroscienza che sostiene la necessità di considerare con grande serietà le emozioni; del resto, recentissime scoperte scientifiche assicurano che se cercheremo di aumentare l'autoconsapevolezza, di controllare più efficacemente i nostri sentimenti negativi, di conservare il nostro ottimismo, di essere perseveranti nonostante le frustrazioni, di incrementare la nostra capacità di essere empatici e di prenderci cura degli altri, di cooperare e di stabilire saldi legami sociali, e cioè se presteremo attenzione in modo più sistematico alla mente razional-passionale, potremo sperare in un avvenire meno buio e maggiormente variopinto.
Nella "Etica Nicomachea" (l'indagine filosofica di Aristotele sulla virtù, la personalità umana e la vita retta), la sfida lanciata dall'autore era quella di controllare la vita emotiva con l'intelligenza. Le passioni, quando ben esercitate, possiedono una loro saggezza: esse guidano il nostro pensiero, i nostri valori, la nostra stessa sopravvivenza.
Esse possono, tuttavia, facilmente impazzire e, come ben insegna Aristotele, il problema non risiede nello stato d'animo in sé, ma nell'appropriatezza dell'emozione e della sua espressione e come, dunque, saper trasferire l'intelligenza nelle nostre emozioni e, di conseguenza, saper portare la civiltà nelle nostre strade e la premura per l'altro nella nostra vita di relazione.

Chiara e Mario Tiberi


La rubrica di Orvietosì  "A Destra e a Manca"è alla novantanovesima puntata. La rubrica è animata da Pier Luigi Leoni e Franco Raimondo Barbabella, la destra e la sinistra delle "cose". 
Vorremmo attrarre i lettori nel ragionamento aperto da Leoni e Barbabella, non con i commenti, che in questa rubrica sono disattivi, ma con contributi firmati e spediti per e-mail a dantefreddi@orvietosi.it , specificando nell'oggetto la rubrica "A destra e a manca". 
La rubrica esce ogni lunedì.

Per verificare le pubblicazioni passate clicca qui.

 


Pubblicato il: 05/09/2011

Torna alle notizie...