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L'unità dell'Italia non è facoltativa. Prendiamone atto e diamoci da fare, per l'Italia e per Orvieto

A Destra e a Manca 84# "Il tema dell'Italia di mezzo nel quadro di una riflessione sulle ragioni del futuro unitario del nostro Paese nello stesso momento nel quale se ne celebrano i centocinquant'anni di vita. È un tema che ci interessa da vicino, non solo perché le tensioni e le contrapposizioni che caratterizzano da tempo il dibattito politico non garantiscono più un fondamento unitario condiviso". Contributo da Mario Tiberi

Caro Pier,
il penultimo numero di "Limes" - rivista bimestrale di geopolitica - intitolato significativamente "L'Italia dopo l'Italia", ripropone il tema dell'Italia di mezzo nel quadro di una riflessione sulle ragioni del futuro unitario del nostro Paese nello stesso momento nel quale se ne celebrano i centocinquant'anni di vita. È un tema che ci interessa da vicino, non solo perché le tensioni e le contrapposizioni che caratterizzano da tempo il dibattito politico non garantiscono più un fondamento unitario condiviso (mi sembra tra l'altro che questo indichi la proposta di Umberto Bossi di trasferire due ministeri a Milano), ma anche perché ad esso si connette strettamente la questione a noi tanto cara del che fare in Umbria e ad Orvieto nell'epoca del federalismo che si sta realizzando, seppure con tentennamenti e contraddizioni non proprio tranquillizzanti.
Il nostro amico Giovanni Codovini su Il Giornale dell'Umbria dello scorso 13 maggio ne coglie la portata di storico cambiamento di prospettiva proprio perché la dimensione geopolitica dell'Italia di mezzo non può non essere il riferimento per una seria e lungimirante discussione sulla riforma interna della nostra regione se si vuole uscire dal chiuso delle compensazioni localistiche e affermare nella realtà l'idea di regione aperta, che innanzitutto vuol dire superare i confini amministrativi e costruire prospettive, opere e attività, insieme alle altre regioni.
Non sono dunque discorsi di intellettuali sognatori, ma questioni stringenti con fortissimi aspetti pratici. Che facciamo noi? Dico noi qui, nel nostro territorio? Perché per noi la questione è vitale. La riassumo così: la nostra è un'area di confine tra province di tre regioni; il suo futuro non è nel chiuso del territorio segnato dai limiti amministrativi della provincia di Terni, ma nell'apertura verso le aree contigue del Lazio e della Toscana; l'Umbria avrebbe tutto l'interesse a fare delle aree di confine il trampolino per assumere un ruolo trainante nello sviluppo di una modernizzazione interregionale infrastrutturale, turistica, culturale, organizzativa; perciò andrebbe stimolata in questo senso con opportune iniziative, sia costruendo ad esempio l'unione dei comuni del nostro territorio, sia dialogando con le amministrazioni confinanti delle altre regioni, sia  collegandosi con le altre aree di confine dell'Umbria, che hanno gli stessi obiettivi nostri.
Questo, caro Pier, mi sembra oggi il tema dei temi di una vera politica. Ma, osservando il panorama politico e i comportamenti reali, si può sensatamente parlare di una vera politica, in generale e con riferimento ai livelli locali come il nostro? Sinceramente, mi sembra che siamo davvero molto lontani non dico dall'ideale, ma addirittura dal sensato.
Tuttavia, per non rimanere alla lamentazione, accenno alla questione di metodo che dovrebbe essere ben presente a tutti coloro che volessero sul serio rapportarsi ai problemi dei momenti di crisi per guardare avanti e superarli. Naturalmente nell'assunto che il superamento delle crisi, politiche, istituzionali, economiche, è compito essenziale di classi dirigenti che siano realmente tali. E anche nell'assunto che al superamento della crisi del nostro Paese, che è grave perché sta investendo le ragioni stesse dello stare insieme, ognuno di noi, sia come singolo che come città e territorio, si deve sforzare di dare il massimo contributo.
Nell'introduzione al numero di Limes che ho citato all'inizio, il direttore responsabile Lucio Caracciolo dice: "Nelle crisi vince chi dimentica prima. Per orientarsi nel vortice del cambiamento l'urgenza è disapprendere. Liberarsi dalle certezze dell'abitudine per aprirsi a nuove strategie cognitive. Da convalidare o confutare nella prassi. Ma se non inibiamo quel passato che ci impedisce di progettare il futuro, finiamo travolti dal presente". E cita quel passo delle Lettere a Lucilio in cui Seneca afferma che "Virtutes discere vitia dediscere est", imparare le virtù vuol dire disimparare i vizi. Non ti sembra che potremmo assumere questo sia come motto della nostra repubblica che della nostra città?
Tuo Franco

Caro Franco,
mentre ci stiamo preparando alla commemorazione del Senatore Romolo Tiberi, nel decimo anno dalla scomparsa(sala del consiglio comunale, sabato 4 giugno alle ore 10,30) sentiamo più acuta la mancanza di un interlocutore prezioso. La vastità dell'orizzonte culturale del "nostro" Professore e la sua capacità di delineare grandi sintesi ci sarebbe stata preziosa. Proviamo a non esserne indegni allievi. L'articolo di "Limes" che mi segnali lo accetto come spunto di discussione, perché segnala il problema della "disunità" nazionale, che ha una dura consistenza sotto le nebbie della superficialità e del political correct. Non ne posso condividere l'individuazione come "Italia di mezzo" di Emilia e Romagna, Toscana, Marche  e Umbria. La connotazione di "regioni rosse" con un assetto sociale  e un sistema economico reso omogeneo dall'egemonia del partito comunista, non mi sembra granché come fatto aggregante. Gli stessi autori devono riconoscere che gli emiliani si sentono settentrionali. Io aggiungerei che sia i Latini (chiamo così gli abitanti del Lazio, se non altro per non confonderli con i tifosi di una società calcistica) sia gli Abruzzesi non si sentono meridionali. Nelle pianure del Lazio e in quella di Pescara è fiorito un sistema economico dove le piccole e medie imprese non hanno convissuto con l'egemonia comunista. In ogni modo gli elementi di disgregazione dello Stato nazionale non possono essere compresi senza uno sguardo alla storia e alla geografia, dove la composizione, la scomposizione e la ricomposizione degli Stati si presenta sempre legata alla dinamica degli Imperi. In altri termini, gli Stati nazionali (che, secondo il concetto romano, aggregano una gens,un popolo che si distingue dagli altri grazie a radicati elementi identitari) tende ad attribuirsi la sovranità, vale  a dire il potere di governarsi senza derivarne l'investitura da autorità sovranazionali, siano esse civili o religiose. Ma la sovranità, come tutte le cose di questo mondo, è relativa ed è sempre soggetta a esproprio, almeno parziale, da parte di ordinamenti superiori, nazionali o sovranazionali. Basta riflettere sulla nostra storia del Novecento. Nella speranza di salvaguardare il suo piccolo Impero, il governo fascista si appoggiò sventuratamente al nascente Impero germanico e, travolto dalla sconfitta di quest'ultimo, finì nell'orbita dell'Impero americano, con tutte le limitazioni della sovranità che abbiamo conosciuto, comprese le basi militari dell'Alleanza Atlantica sul nostro territorio. Se per formazione di un Impero s'intende, come deve intendersi in senso moderno, la cessione di sovranità a un ordinamento sovranazionale, l'Unione Europea altro non è che un Impero in via di progressiva organizzazione.  All'UE l'Italia ha già ceduto non solo la sovranità monetaria, ma quella della legislazione economica e della regolazione del mercato.
È in questo quadro che devono, a mio avviso, essere interpretate e affrontate le pulsioni autonomistiche delle realtà locali. L'Italia non è tenuta unita dagli Italiani, buona parte dei quali si libererebbero del Mezzogiorno, che assorbe risorse del Centro e del Nord senza nemmeno più dare in cambio mano d'opera, che affluisce ormai nelle zone ricche da ogni parte del mondo. L'Italia è tenuta unita dall'Europa, perché abbandonare il Mezzogiorno significherebbe mollarlo agli Asiatici, che ne farebbero in quattro e quattr'otto una testa di ponte per una sfrenata penetrazione nei mercati europei. Allora ci accorgeremmo che gli Italiani del Mezzogiorno hanno capacità che vanno oltre la ben nota abilità nell'egemonizzare l'esercito, la burocrazia e la magistratura.
Non sono elucubrazioni di un consigliere comunale di provincia; sono cose di cui si parla (un po' troppo sommessamente) da vent'anni. Ed è in questo quadro "imperiale" che vanno inserite le nostre prospettive locali. La nostra città continuerà a rappresentare solo una simpatica sosta tra Roma e Firenze per turisti dei quali solo la ventesima parte è in grado di comprendere i valori della civiltà medievale europea, della quale il Duomo rappresenta una magnifica e magniloquente espressione. Il compito della nostra classe dirigente è di dare a Orvieto un ruolo internazionale, di inventare o riscoprire una vocazione che dia al nome di Orvieto risonanza nel presente. L'unione dei comuni dell'Orvietano è un elemento sinergico di tale palmare evidenza che è difficile capire come siano ancora pochissimi quello che lo capiscono. Si sta commettendo il tragico errore di far decidere a Perugia il territorio di riferimento di Orvieto, come se si trattasse di un ATO qualsiasi, di una qualsiasi distretto amministrativo da disegnare per mano di gente spesso ignorante e, ancora più spesso, proterva. L'aggregazione di Orvieto coi comuni del comprensorio non solo deve dare forza alla programmazione e allo sviluppo dell'area, ma deve dare peso e voce nei rapporti, nei confronti e nella sana competizione con ogni realtà all'interno e al di fuori dei confini amministrativi.
Tuo Pier      


da Mario Tiberi

Miei carissimi,

           le parole di Pier Luigi espresse in omaggio alla figura di Romolo Tiberi, fors'anche eccessive rispetto ai suoi reali meriti, mi commuovono e mi inorgogliscono; la locuzione latina "virtutes discere, vitia dediscere est", riferita da Franco, impone una approfondita riflessione sulla caduta degli "antiqui et sacri mores civiles" prima che di quelli politici e sociali.
Sono sempre più convinto, infatti, che lo stato di crisi generalizzato abbia le sue origini ultime nella dispersione dei capisaldi etici della nostra civiltà romano-cristiana.
E' nostro compito riportare tra le genti il valore irrinunciabile dello "Officium cum Dignitate", anche se non saremo ascoltati e forse persino derisi. Non ci deve turbare più di tanto, perché "sed ita est".
Mi sovviene il celeberrimo adagio Oraziano "In medias res stat virtus": è la ricerca dell'equilibrio e della pace con la nostra coscienza che ci deve premere in massima misura e la morale delle giuste medianità può esserci di sommo ausilio. Più che ad una rinvigorita cultura mitteleuropea (di mezzo o di centro appunto), oserei riferirmi ad una rigenerata e rivitalizzata cultura mittelitaliana che sappia trovare in Orvieto, tra Roma e Firenze, il baricentro di una nuova culla di civiltà.
Potrò passare per un visionario, ma è anche con un pizzico di voluta follia che si conquistano i sogni.
Con l'affetto di sempre, Vi abbraccio cordialmente.


La rubrica di Orvietosì  "A Destra e a Manca"è alla ottantaquattresima puntata. La rubrica è animata da Pier Luigi Leoni e Franco Raimondo Barbabella, la destra e la sinistra delle "cose". 
Vorremmo attrarre i lettori nel ragionamento aperto da Leoni e Barbabella, non con i commenti, che in questa rubrica sono disattivi, ma con contributi firmati e spediti per e-mail a dantefreddi@orvietosi.it , specificando nell'oggetto la rubrica "A destra e a manca". 
La rubrica esce ogni lunedì.

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Pubblicato il: 23/05/2011

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