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I giovani ci preoccupano e noi dobbiamo occuparcene

"A Destra e a Manca"#81 "Niente buonismo e perdonismo e al contrario affermazione della responsabilità individuale, autonomia al momento giusto e non sostituzione degli adulti ai giovani, ma anche consapevolezza che la crescita non avviene nel vuoto, ma nell'ambiente che gli adulti determinano..."

Caro Pier,

ha colpito un po' tutti la notizia che il giorno di Pasquetta tre ragazzi e una ragazza tra i 17 e i 19 anni, all'uscita da un rave party nel comune di Sorano, hanno aggredito e pestato a sangue due carabinieri che stavano per sequestrare loro l'auto perché il conducente era risultato positivo all'alcoltest. Il dibattito anche questa volta si è subito sviluppato con l'inevitabile intensità e  con l'articolazione di posizioni tipica di questi casi. Ma ho notato qualcosa di nuovo, e sento il bisogno di sottoporlo anche al tuo giudizio, perché fa parte di quel dibattito sui giovani che è uno dei temi che prediligiamo.

Si tratta dell'articolo di Michele Serra pubblicato su La Repubblica dello scorso 27 aprile. Te lo riproduco: "Il pazzesco pestaggio dei due carabinieri in Toscana innesca l'inevitabile, angoscioso dibattito sulle "responsabilità degli adulti". Genitori sconvolti, autorità sbigottite, e chiunque abbia un figlio di quell' età che si chiede quanto lo conosce, e se davvero lo conosce. Tutto dolorosamente giusto, ma forse manca, e manca da troppo tempo, anche un bel dibattito sulle responsabilità dei ragazzi. La responsabilità è un peso dell'individuo: di ogni singolo individuo. Ambiente, società, educazione, modelli di comportamento hanno il loro peso, ma a guidare i pensieri, la testa, le mani è ciascun essere umano. Né la migliore società né il miglior genitore né la migliore scuola possono governare fino in fondo le azioni di un ragazzo e determinarne il destino. Forse gli adulti dovrebbero parlare meno delle loro responsabilità, e di più delle responsabilità dei loro figli. Riusciamo a essere invadenti perfino rispetto alla colpa e al dolore, parliamo dei figli come fossero sacchi vuoti che solo le nostre virtù e i nostri vizi possono riempire. Ci rimproveriamo di "parlare poco ai figli", ma i nostri genitori con noi parlavano anche meno. Era scontato che toccasse a noi (a scuola, con gli amici, poi nel lavoro) essere ciò che eravamo, diventare ciò che eravamo capaci (o no) di diventare. Anche per questo, forse, siamo diventati adulti più in fretta. In grado di affrontare una ramanzina dei carabinieri senza uscire di senno".

Ti dicevo che ho notato qui qualcosa di nuovo. Più precisamente: 1.  si rifiuta il perdonismo tipico di certa cultura buonista e in particolare cattocomunista; 2. si traggono le conseguenze logiche dal fatto che non tutto dipende dagli adulti e dalla società genericamente intesi; 3. si fa balzare in primo piano la responsabilità come connotato dell'individuo che decide del proprio destino.

Certo, soprattutto in me che mi occupo professionalmente di educazione dei giovani, è ben presente l'esigenza di capire che cosa si può fare di più e di diverso o come fare meglio quello che già si fa, esigenza che in verità dovrebbe svilupparsi in generale fino ad investire le scelte soggettive ed oggettive, pubbliche e private. Perché il fatto che è l'individuo che deve essere ritenuto responsabile di ciò che fa non vuol dire che la società e in particolare gli adulti non abbiano un ruolo di indirizzo, di guida, di strutturazione dei percorsi di crescita, con la scuola, con gli esempi da seguire o da non seguire, con il sistema di comunicazione e i modelli di vita che propone.

E' forse il caso di ricordare che, rispetto alla questione essenziale del rapporto tra eredità e ambiente nei processi di crescita, esiste oggi un accordo praticamente generale sull'idea che nella formazione del carattere di un individuo intervengono entrambi i fattori. E se sul patrimonio ereditario non possiamo evidentemente intervenire, lo possiamo invece sull'ambiente. Lo  psicologo Charles L. Brewer condensava questo concetto in una efficace metafora: "heredity deals the cards; environment plays the hand", cioè "l'eredità dà le carte, l'ambiente gioca la mano".

Dunque per me niente buonismo e perdonismo e al contrario affermazione della responsabilità individuale, autonomia al momento giusto e non sostituzione degli adulti ai giovani, ma anche consapevolezza che la crescita non avviene nel vuoto, ma nell'ambiente che gli adulti determinano. Caro Pier, tu che ne pensi?

Tuo Franco

Caro Franco,

è proprio vero che il problema dei giovani ci sta a cuore. E credo che le nostre preoccupazioni siano molto diffuse. Così come credo che si stia diffondendo un sentimento di fastidio nei confronti di quei giovani che si abbandonano ai vizi, che non vogliono accettare lavori che ritengono umilianti, che  pretendono di essere mantenuti dai genitori anche dopo che sono divenuti adulti, che danno la colpa alla società perché non mantiene le promesse, come se le promesse fatte dai politicanti le avesse fatte la società. La presenza di milioni di stranieri che trovano lavoro in Italia rappresenta uno schiaffo morale ai nostri giovani in attesa di lavoro; ed è uno schiaffo che non può non far male. Il giovane italiano che non studia e non lavora e va a far benzina con l'auto di famiglia non può non vergognarsi intimamente di fronte al giovane bengalese che lo serve col sorriso sulle labbra.

Per quel che ne so, si nasce con un temperamento che non possiamo cambiare; si cresce in un ambiente che non possiamo scegliere e l'interazione tra l'ambiente e il temperamento determina il carattere. Ma, crescendo, si sviluppa nelle persone non gravemente malate la capacità di influire con scelte libere sulla propria vita. È così che si forma la personalità. Certamente ha un ruolo determinante quello che chiamiamo caso. Nascere nel luogo giusto e nella famiglia giusta, non trovarsi in certi momenti nel posto sbagliato è determinante e se ne deve tener conto quando si parla di responsabilità. Intendo sia la responsabilità dei figli che quella dei genitori. Ma queste sono considerazioni generali che non bastano a capire il cosiddetto disagio dei nostri giovani. Allora come non riflettere sulla differenza tra la nostra generazione e quella dei nostri figli? La nostra è stata la generazione più fortunata che la storia abbia mai conosciuto. Siamo nati con notevoli possibilità di sopravvivere,  perché erano stati da poco inventati gli antibiotici e avevamo cibo sufficiente, magari con l'aiuto degli Americani. Non abbiamo dovuto combattere e, se siamo stati obbligati a prestare servizio militare in tempo di pace, il maggiore disagio, almeno per molti di noi, è stato che non ci facevano sparare abbastanza. Chi ha avuto la possibilità, e la voglia, di studiare non ha avuto alcun problema a trovare lavoro. Gli altri comunque riuscivano a sistemarsi e spesso a passarsela meglio di chi aveva studiato.                                                                                                                                                                                                                                                          I nostri vecchi ci dicevano che eravamo nati con la camicia e ci educavano ad apprezzare la nostra fortuna. Abbiamo visto le case dove la povertà non era stata ancora sconfitta e ne abbiamo sentito l'odore. Caro Franco, non potremo mai dimenticare l'odore delle case dei poveri. I nostri figli non conoscono quell'odore. I veri poveri li hanno visti al cinema e in televisione, ma lì non puzzano. Qualcuno li è andati a vedere come turista, ma quando ormai sapeva come turarsi il naso.

Abbiamo visto la nostra Nazione diventare ricca e abbiamo accolto con gioia gli spruzzi di ricchezza che ci venivano addosso e ci facevano star bene. Abbiamo messo al mondo dei figli con la soddisfazione di poter loro evitare anche i piccoli disagi della nostra infanzia: gli abiti rivoltati, il pane con la frittata nella cartella, i libri usati, le vacanze a casa, le tasche con pochi spiccioli. E li abbiamo messi al mondo con la speranza che ci avrebbero superato nella posizione sociale, nel reddito e nelle comodità della vita. Ma non è stato così. Se riusciamo a metterci nei loro panni, li possiamo capire meglio e li possiamo aiutare. Tu, ovviamente, pensi soprattutto a quello che può fare la scuola. Ma alla base di tutto quello che possiamo e dobbiamo fare credo che vi debba essere chiarezza su alcuni punti che mi sembrano basilari.

In primo luogo, non è vero che tutti i giovani rientrino nell'area del disagio; ve ne sono moltissimi di coraggiosi e concreti e che devono essere valorizzati, anche nella scuola, e portati come esempio.

In secondo luogo, dobbiamo far capire ai giovani che la scuola è un servizio costoso che lo Stato, cioè i contribuenti, devono fornire con discernimento. Chi ha spiccata attitudine allo studio deve essere accompagnato ai più alti livelli e tutelato come una ricchezza della Nazione. Gli altri acquisiscano pure la cultura che desiderano, possibilmente di livello universitario, ma siano addestrati fin dall'adolescenza anche ai mestieri.

In terzo luogo, dovrebbe essere abolito il valore legale dei titoli di studio in modo che sia gli alunni che i genitori e gli insegnanti possano esclusivamente puntare sulla qualità della formazione.

Non mi sembrano utopie, ma tu devi aiutarmi a capire quel che si può fare di concreto nel contesto legale, organizzativo e politico in cui ci troviamo a vivere.

Tuo Pier



La rubrica di Orvietosì  "A Destra e a Manca"è alla ottantunesima puntata. La rubrica è animata da Pier Luigi Leoni e Franco Raimondo Barbabella, la destra e la sinistra delle "cose". 
Vorremmo attrarre i lettori nel ragionamento aperto da Leoni e Barbabella, non con i commenti, che in questa rubrica sono disattivi, ma con contributi firmati e spediti per e-mail a dantefreddi@orvietosi.it , specificando nell'oggetto la rubrica "A destra e a manca". 
La rubrica esce ogni lunedì.

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Pubblicato il: 02/05/2011

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