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Il paese dei balocchi: disagio giovanile e immigrazione

A Destra e a Manca #78 " Molti nostri giovani non si adattano a lavori che considerano sgradevoli o servili e preferiscono la disoccupazione o la sottoccupazione; altrimenti non vi sarebbero in Orvieto più di mille stranieri residenti per motivi di lavoro". Ma, come scrive Barbabella nel suo intervento, " Lasciarsi prendere dalla paura? La paura è sempre cattiva consigliera e produce atteggiamenti irrazionali e decisioni sbagliate. Dunque ancora no, e sempre un no tondo"

Caro Franco,

l'ondata di giovani tunisini che si riversa sulle coste italiane m'induce a considerazioni sgradevoli e politicamente scorrette che riguardano anche la realtà della nostra gioventù e il suo rapporto con il lavoro. Sintetizzo la situazione quale mi appare:

a) molti nostri giovani non si adattano a lavori che considerano sgradevoli o servili e preferiscono la disoccupazione o la sottoccupazione; altrimenti non vi sarebbero in Orvieto più di mille stranieri residenti per motivi di lavoro;

b) non vi è un numero sufficiente di giovani che se la sentono di intraprendere lavori artigianali, cosicché mancano idraulici, elettricisti, imbianchini e, soprattutto, giardinieri;

c) quando sono messi a concorso, ormai sporadicamente, posti di dipendenti comunali, c'è la ressa; nonostante sia diffuso il sospetto che i concorsi siano abitualmente taroccati.

Perché le cose stanno così, nella nostra città,  ma anche nella gran parte d'Italia?

Sintetizzo le mie risposte:

a) un giovane, per accettare un lavoro umile, e preferirlo all'ozio e alla scontentezza, deve avere una forza d'animo che l'educazione ricevuta nella famiglia, nella scuola e nella società spesso non ha aiutato a sviluppare;

b) il lavoro artigianale richiede volontà, intelligenza, manualità, una istruzione adeguata e la forza di affrontare rischi economici e fisici;

c) il lavoro pubblico comporta rischi tanto scarsi da farlo equiparare a una rendita vitalizia, una rendita sicura e nemmeno tanto modesta, se equiparata al lavoro dipendente privato; le prestazioni che vengono richieste lasciano molto tempo libero e, se prese per il verso, possono essere più interessanti di tanti passatempi.

Tanto di cappello ai giovani che non rientrano in questi schemi e che si danno da fare. Ma resta il fatto che, se fossero tanti, non vi sarebbero tanti lavoratori stranieri.

E, a proposito di lavoratori stranieri, bisogna distinguere. Una cosa è il giardiniere romeno, una cosa è la badante moldava, altra cosa è il ribollire di 100 milioni di giovani arabi, agli occhi dei quali le nostre contrade (dove i nostri giovani si sentono a disagio, e trovano pure chi li compatisce) sono il paese dei balocchi.

Ho l'impressione che al fondo del mare di chiacchiere e al di là delle azioni maldestre con cui si sta affrontando l'attuale emergenza dell'immigrazione nordafricana, si stia diffondendo il terrore che questo sia solo l'inizio e che finiremo col dover dividere i balocchi. I giovani arabi stanno scassando numerosi Stati in Nord Africa e in Medio Oriente; quanto ci metteranno a scassinare il nostro?

Quello che la famiglia, la scuola e la società non sanno più insegnare, i nostri giovani, e non solo loro, lo impareranno dagli Arabi?

Tuo Pier  

Caro Pier,

questione molto seria quella che poni. Le tue riflessioni sono politicamente scorrette? Evviva! Lo dico brutalmente: nella disgregazione dei fondamenti etici e nel conseguente sfrangiamento culturale che viviamo merita attenzione solo ciò che provoca o almeno appare come provocazione, e per ciò stesso genera riflessione. Allora anch'io continuerò con i tuoi ragionamenti politicamente scorretti, anche se non del tutto nuovi avendo affrontato il tema dei giovani altre volte in questa stessa rubrica.

Parto dal fondo: i nostri giovani impareranno dagli Arabi ciò che noi non siamo più in grado di insegnare loro? Trasformerei così la tua domanda: un mondo in subbuglio, per di più alle nostre frontiere, riuscirà a farci capire quello che non siamo stati in grado di capire nel lungo periodo di bonaccia che abbiamo ormai alle spalle? Andando all'essenziale, che cosa non abbiamo capito? Due o tre cose in fondo molto semplici: le conquiste di civiltà non sono garantite dal solo fatto di essere state ottenute al prezzo di duri e lunghi sacrifici di intere generazioni; il mondo non si riduce all'orto di casa ed è in continuo movimento; in questo mondo, la possibilità di mantenere i livelli raggiunti è data non dalla loro difesa statica, ma dalla capacità di svilupparli, cioè essenzialmente dal sapere diffuso e dalla qualità del sistema produttivo e sociale. Dunque è venuto il momento di capirlo. E, a scanso di equivoci, per me questo non significa guardare indietro al bel tempo che fu (che in realtà non è stato mai un bel tempo in termini assoluti, ma solo in termini relativi e per alcuni, come ogni tempo), ma al bel tempo che potrebbe essere se

Altri hanno capito quelle due o tre cose meglio di noi? Risposta: sì. Ma va detto senza ipocrisie che noi e gli altri non siamo attrezzati eticamente, culturalmente e politicamente, a far fronte agli sconvolgimenti che avvengono in tutto il mondo (globalizzazione e avanzata di nuove realtà produttive e culturali) e in particolare a quelli che sono appena iniziati nell'area mediterranea e del vicino oriente. Basti pensare che non solo non c'è una politica estera europea, ma non c'è nemmeno una politica europea dell'immigrazione. Le classi dirigenti annaspano e le conseguenze, quando non sono tragiche, sono senz'altro ridicole. Quel che è chiaro è che non stanno emergendo statisti, come invece è sempre accaduto nei cruciali frangenti della storia, anche quella non tanto lontana da noi, e il nostro destino (di noi italiani, ma anche di noi europei) appare essere sempre più nelle mani dei comitati elettorali dei vari leaders (Berlusconi e Bossi, non meno di Di Pietro e Bersani, per citare i maggiori in Italia; ma non meno di loro Sarkozi in Francia e la Merkel in Germania). Dunque per governare i nostri Paesi in questo mondo in subbuglio, bisogna dire, oltre che classe dirigente italiana cercasi, cercasi anche classe dirigente europea, senza che con questo ci possiamo salvare la coscienza per le responsabilità che non stiamo esercitando ciascuno nell'ambito suo proprio, collettivo e individuale.

Ma che fare, anche nelle nostre realtà locali? Stare in attesa degli eventi? No, ed è un no tondo. Lasciarsi prendere dalla paura? La paura è sempre cattiva consigliera e produce atteggiamenti irrazionali e decisioni sbagliate. Dunque ancora no, e sempre un no tondo.

Vedo solo una direzione di marcia, che genera poi tutte le altre che sono necessarie. Ed è quello che qui abbiamo sempre sostenuto: tutti, in ogni luogo in cui si trovano ad esercitare un ruolo, facciano bene la loro parte, perché questo produce un atteggiamento mentale che chiede anche agli altri di fare la loro parte. Le regole devono essere chiare, e chiunque, autoctono o immigrato, deve rispettarle. Sennò la convivenza va a farsi fottere.

Concludo con qualche considerazione sull'educazione dei giovani e il loro rapporto con il mondo del lavoro. Non ci deve preoccupare solo il fatto che molti mestieri, umili o meno umili, non sono graditi e vengono lasciati agli immigrati. Ci deve anche preoccupare, forse di più, quel che emerge dal rapporto ISTAT sul nostro Paese presentato lo scorso 26 maggio, cioè che ci sono ormai più di due milioni di giovani italiani, dai quindici ai ventinove anni, che non lavorano e non frequentano nessun corso di studi. E ci sono segnali chiari che il fenomeno è presente anche dalle nostre parti. Qui non è questione dunque solo di scuola, è questione di orientamenti, atteggiamenti, comportamenti, della società come tale, nelle sue diverse articolazioni.

Cosa fare? Non ci sono ovviamente ricette. Ma vogliamo incominciare a dire che l'educazione deve esserci a tutti i livelli e che deve essere flessibile, nel senso che deve preparare a vivere nel mondo reale e non in quello dei sogni, o, come dici tu, nel mondo dei balocchi? Vogliamo incominciare a dire che la difesa dell'esistente, spesso fatto di piccoli e grandi privilegi, non è più compatibile, oltre che inaccettabile? E vogliamo anche incominciare a dire e a praticare il principio che chi merita deve essere stimato e chi non merita no, fermo restando che nessuno deve essere pregiudizialmente escluso? E che le responsabilità vanno affidate a chi sa e ne è capace? Com'è evidente, si tratta di operare una svolta negli orientamenti e nelle scelte di priorità. Chi ne è responsabile? Tutti: governo, istituzioni regionali e locali, organizzazioni, associazioni, pubbliche e private. In quali tempi? Subito. Con quale possibilità di successo? Secondo me scarse, ma perché questi processi richiedono unità di intenti diffusa, unità che oggi non vedo e che però non è una meta impossibile da raggiungere.

Ecco, caro Pier, cominciamo da qui, anche dalle nostre parti. Già, noi abbiamo cominciato da un pezzo. Comincino allora  quelli che per ragioni diverse, ad esempio anagrafiche, non hanno ancora cominciato, e quelli che furbescamente stanno sempre a guardare ciò che fanno gli altri, pronti però sempre a dire che sono gli altri a sbagliare. E cominci, sia detto senza offesa, anche chi ci fa una reprimenda ogni volta che può.

Tuo Franco


La rubrica di Orvietosì  "A Destra e a Manca"è alla settantottesima puntata. La rubrica è animata da Pier Luigi Leoni e Franco Raimondo Barbabella, la destra e la sinistra delle "cose". 
Vorremmo attrarre i lettori nel ragionamento aperto da Leoni e Barbabella, non con i commenti, che in questa rubrica sono disattivi, ma con contributi firmati e spediti per e-mail a dantefreddi@orvietosi.it , specificando nell'oggetto la rubrica "A destra e a manca". 
La rubrica esce ogni lunedì.

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Pubblicato il: 11/04/2011

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