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Dal 'miracolo' del Risorgimento al "miracolo" del rilancio di Orvieto

A Destra e a Manca #76 Confido che la sofferenza inferta dal declino della nostra città sia occasione per riflettere sui valori e che, per mettere a fuoco i valori, sia necessario dibattere temi concreti...

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Caro Franco,
le celebrazioni dell'Unità d'Italia non devono e non possono essere solo un fatto rituale, ma devono e possono essere occasione di riflessione. Come i bravi cristiani, nel periodo pasquale, riflettono sulla passione, morte e resurrezione di Cristo, così i bravi italiani, in questi tempi, dovrebbero riflettere sulla nascita dello Stato nazionale italiano. Una scorsa ai libri di storia e l'attenzione al dibattito che si sviluppa sui mezzi di comunicazione sociale, sono ovviamente consigliabili. Se tu mi consenti, le mie riflessioni nell'anno del centocinquantenario, s'ispirano al motto seguente: "Inchiniamoci allo storico quando dimostra che una certa cosa è accaduta, ma limitiamoci a sorridere quando afferma che doveva accadere". Questo per dire che coloro che fecero l'Italia potevano fallire se non avessero fatto le scelte giuste. L'Unità poteva essere fatta solo in quel contesto, ma non sarebbe stata fatta se una classe dirigente non avesse perseguito scopi precisi e non avesse fatto le scelte opportune. E per classe dirigente non intendo una vaga classe sociale o categoria di intellettuali, ma persone determinate che sacrificarono parte delle loro aspirazioni per uno scopo comune. Chi furono queste persone? Bastano a contarle, e avanzano, le dita di una mano.
I Padri della Patria non fecero affidamento sulla saggezza popolare, anzi temettero il suffragio universale come manipolabile e tendenzialmente reazionario. Il parlamento dell'Italia unitaria, eletto su base censitaria, cioè dagli appartenenti ai ceti superiori, fu probabilmente più progressista di quanto lo sarebbe stato un parto del suffragio universale.
Confidando che la storia sia magistra vitae, che insegnamento possiamo trarne per la nostra epoca e per la nostra città?
Se dunque oggi il suffragio universale è acquisito come una conquista definitiva, perché conforme alla dignità umana, non mi sembra verosimile che esso sia automaticamente in grado di selezionare la migliore classe dirigente possibile. La situazione della Nazione e quella di Orvieto in particolare, dimostrano che non è così. La saggezza popolare come elemento carismatico non esiste. Una buona classe dirigente non nasce dal favore popolare, ma riesce a conquistare il favore popolare nonostante la propria cultura, la propria dedizione al bene pubblico e la propria capacità di anteporre gli interessi generali a quelli privati.
Come vedi, ritorna il tema che ci appassiona da molto tempo e che è la costruzione di una buona classe dirigente in senso morale e intellettuale.
Confido che la sofferenza inferta dal declino della nostra città sia occasione per riflettere sui valori e che, per mettere a fuoco i valori, sia necessario dibattere temi concreti.
L'abbiamo già fatto soprattutto coi problemi dello smaltimento dei rifiuti, della gestione dei servizi comunali, del risanamento finanziario e della collaborazione intercomunale. Non so quanto abbiamo inciso concretamente, a parte la preziosa tranquillità delle nostre coscienze, ma è su quella linea che dobbiamo continuare specializzando in tal senso questa rubrica.
Sono sicuro che le idee non ti mancano e che non mancano al Direttore, agli altri amici del Covip e ai nostri lettori.
Dimenticavo, il motto non è il mio, ma di Nicolás Gomez Dávila.
Tuo Pier

Caro Pier,
il giudizio di Nicolás Gomez Dávila sugli storici è del tutto condivisibile anche dal mio punto di vista. Ti dirò che mi ricorda la famosa polemica di Benedetto Croce contro "la storia a disegno", cioè quelle filosofie della storia che concepiscono la vicenda umana come un percorso predeterminato verso un qualche esito inevitabile stabilito a priori. Sono concezioni (non importa se laiche o religiose) che espellono dalla realtà ciò che è sgradito e che trattano la libertà umana (e con essa la responsabilità) come un inutile orpello. Non dobbiamo mai dimenticare la distinzione tra res gestae (ciò che è accaduto, i fatti) e historia rerum gestarum (il racconto di ciò che è accaduto, la narrazione dei fatti), per cui, dovendosi trattare di realtà accaduta (realtà umana), l'atteggiamento mentale corretto dello storico è la conoscenza ricostruttiva, che tende a capire il come e il perché degli avvenimenti, lo sfondo particolare e quello generale in cui si sono verificati e coloro che ne sono stati protagonisti in diversi modi e in diversi gradi.
Chi ricostruisce la storia in questo modo ci restituisce spesso una realtà che è andata come è andata non perché ci fosse un unico disegno di un qualche soggetto che aveva capito tutto fin dall'inizio, ma perché una convergenza di disegni diversi, animati da personaggi diversi, ad un certo momento ha reso possibile un determinato risultato, a cui magari tutti quei personaggi guardavano (seppure con interessi e aspirazioni addirittura contrastanti), ma non proprio in quel modo e non in quei tempi. E' quella che si chiama casualità o imprevedibilità della storia.
A proposito del nostro Risorgimento, un approccio di questo tipo (rispettoso sia della volontà degli uomini che della casualità della storia) lo troviamo in due libri che è davvero consigliabile leggere perché consentono quella presa di coscienza e quella riflessione che tu auspichi per tutti i buoni italiani, proprio al fine di sentirsi tali e di comportarsi come tali. Parlo de "Il miracolo del Risorgimento" di Domenico Fisichella, editore Carocci, e di "Bella e perduta. L'Italia del Risorgimento" di Lucio Villari, editore Laterza.
Ecco come l'editore Carocci presenta il libro di Fisichella: "Il volume ripercorre, con linguaggio chiaro e non accademico, le vicende che condussero allo sviluppo di un profilo unitario - sul piano culturale (religione, lingua, tecnologia) e materiale (commercio, produzione, tecnica) - del popolo italiano. Il Risorgimento italiano viene visto come il risultato di un lungo processo di incubazione e di selezione: un risultato condizionato dai passaggi precedenti e a essi inevitabilmente legato, ma insieme frutto dell'iniziativa perspicace di quanti, superando robusti ostacoli, riuscirono a conseguire credibilità e vigore militare nell'arena europea. L'ultima parte del saggio esplora il contributo rispettivo di alcune personalità (Carlo Alberto, Cavour, Vittorio Emanuele Il, Garibaldi, Mazzini) e degli elementi elitari, popolari, dinastici, internazionali che condussero al 1861 (nascita del Regno d'Italia), con la sua ineludibile appendice di Porta Pia (1870)".
Ed ecco come l'editore Laterza presenta il libro di Villari: "Dal 1796 al 1870 vi è stato un tempo della nostra storia nel quale molti italiani non hanno avuto paura della libertà, l'hanno cercata e hanno dato la vita per realizzare il sogno della nazione divenuta patria. E' stato il tempo del Risorgimento, quando la libertà significava verità. Anzitutto sentirsi partecipi di un'Italia comune, non dell'Italia dei sette Stati, ostili tra loro e strettamente sorvegliati da potenze straniere. La conquista della libertà 'italiana' è stata la rivendicazione dell'unità culturale, storica, ideale di un popolo per secoli interdetto e separato, l'affermazione della sua indipendenza politica, la fine delle molte subalternità alla Chiesa del potere temporale, l'ingresso nell'Europa moderna delle Costituzioni, dei diritti dell'uomo e del cittadino, del senso della giustizia e del valore dell'eguaglianza ereditati dalla rivoluzione francese".
Credo che queste citazioni bastino per capire che la conoscenza di come siamo diventati nazione è utile a capire non solo chi siamo come popolo e perché siamo come siamo, ma anche a capire quali dovrebbero essere i comportamenti delle classi dirigenti a tutti i livelli, senza essere per forza d'accordo con Cicerone che la storia è maestra di vita.
Ad esempio dovremmo prendere atto che le differenze sono ricchezza, e che dunque il problema non è dato dall'esistenza delle differenze, ma da come esse vengono ricondotte a comunità, a bene comune. A questo appunto serve una classe dirigente, sia rispetto ad una nazione sia rispetto ad una città. Ma una classe dirigente è tale se ognuno, pur rimanendo se stesso, si sforza di far convergere la propria visione con quella degli altri per ottenere un risultato che sia utile per tutti o per lo meno per la maggioranza. Il che significa almeno due cose: che una visione bisogna avercela, e che essa è al servizio di tutti e non di se stessi o del proprio clan e basta, salvo il fatto naturalmente che le ambizioni personali non sono deleterie in se stesse, ma lo diventano quando per affermarsi prevaricano il bene comune.
E sono d'accordo con te, caro Pier, che per andare in questa direzione bisogna impegnarsi su temi concreti, come abbiamo cercato di fare in tutto questo periodo, sia come singoli che come COVIP. Perché il linguaggio delle cose è più chiaro di altre forme espressive farcite o di ideologia o di varia fumosità, e perché le possibili convergenze di idee e di proposte, oltre che la loro validità, si possono sperimentare solo sul terreno dei problemi da risolvere. Si verifica così non solo se esiste una classe dirigente, ma in quale direzione si può orientare la sua azione, con quali obiettivi, in quale modo e in quali tempi. E poi, se le circostanze saranno favorevoli, la volontà unitaria su progetti condivisi forse produrrà anche "il miracolo" del rilancio della nostra città.
Tuo Franco



La rubrica di Orvietosì  "A Destra e a Manca" è alla settantaseiesima puntata. La rubrica è animata da Pier Luigi Leoni e Franco Raimondo Barbabella, la destra e la sinistra delle "cose".
Vorremmo attrarre i lettori nel ragionamento aperto da Leoni e Barbabella, non con i commenti, che in questa rubrica sono disattivi, ma con contributi firmati e spediti per e-mail a dantefreddi@orvietosi.it , specificando nell'oggetto la rubrica "A destra e a manca".
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Pubblicato il: 28/03/2011

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