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Attenzione, si va verso le unioni dei comuni. Potrebbe essere una straordinaria opportunità anche per noi, ma

"A Destra e a Manca"# 67. Creeremo a breve un'occasione di confronto pubblico e lì verificheremo che anche in altre zone della nostra regione e di regioni a noi vicine il tema del mettersi insieme per fare sinergia su diversi fronti (gestione efficiente dei servizi, risparmio, sviluppo) è ben presente

Caro Franco,
nel guazzabuglio giudiziario e politico di questi giorni non si sa che fine farà il federalismo fiscale. Ma il riassetto delle autonomie locali è già partito. Infatti una legge nazionale affida alle regioni il compito di delimitare i territori entro i quali i comuni dovranno associarsi per cooperare nello svolgimento delle loro funzioni fondamentali. La regione Umbria, tra le forme associative, sembra che privilegerà le unioni dei comuni, veri e propri enti locali di secondo grado, cioè amministrate da organi non direttamente eletti dal popolo. Si tratta di enti in qualche modo affini alle comunità montane (che spariranno) ma non limitati ai comuni montani e che assorbiranno la maggior parte delle funzioni comunali. Il riassetto delle autonomie locali riverbera la legislazione francese che, nel corso degli ultimi decenni, ha disciplinato in modo efficace la cooperazione fra i comuni. Eppure il problema della frammentazione è più serio in Francia, dove i piccoli comuni sono molto più numerosi di quelli italiani.
Ma la riforma sta procedendo quasi in sordina e le nostre amministrazioni comunali non sembra che si stiano adeguatamente preparando. Eppure avranno voce in capitolo nella delimitazione dei territori delle unioni poiché la regione dovrà attivare una preventiva concertazione.
I vantaggi della cooperazione intercomunale sono evidenti e possono essere così compendiati:
- possibilità di creare sinergie per la elaborazione di analisi e la formulazione di ipotesi di sviluppo;
- acquisizione di maggior peso politico sia nei riguardi di enti di livello superiore (Stato, regione e provincia) sia nei rapporti con altri enti pubblici, sia nei confronti delle imprese private;
- maggiore facilità di accesso ai finanziamenti pubblici e al credito;
- realizzazione di economie di scala riducendo i costi unitari dei servizi;
- sinergie negli acquisti di beni e di servizi.
Ciò nonostante impera la diffidenza. Quindi bisogna cercare di comprenderne le ragioni, alcune delle quali sono poco nobili, come l'impreparazione culturale di molti amministratori e la loro paura di perdere piccoli poteri e di doversi mettere in gioco in ambiti nei quali aumenterebbe la selezione della classe dirigente. Anche molti dipendenti dei piccoli comuni temono novità organizzative che comportino più lavoro e nessun aumento di stipendio. Costoro, poiché i loro interessi spesso s'intrecciano con quelli politici, sono in grado di esercitare pressioni negative. Altre ragioni di diffidenza sono meno ignobili. Una consiste nella gelosia dell'identità comunitaria che l'autonomia comunale storicamente ha presidiato. Un'altra consiste nella cattiva esperienza delle comunità montane che, in un prima fase, furono imbottite di denaro, di amministratori e di personale dipendente e poi furono progressivamente strangolate coi tagli dei fondi, così una pletora di consiglieri e di assessori si trovò a gestire solo grattacapi.
Ma gli amministratori dovranno capire che la cooperazione intercomunale è ormai inevitabile, non solo perché la prescrive la legge, ma perché la frammentazione dei comuni comporta costi che non sono più sostenibili, dato che la finanza pubblica, dovendo sostenere il sistema produttivo, non può più far leva sull'inflazione e sul debito pubblico,  ma deve tagliare le risorse al settore pubblico, compresi gli enti locali.
Comunque, un buon esercizio per scacciare i fantasmi può essere una visita in Francia, dove gli enti locali cooperano efficacemente, senza sacrificare le loro identità e spendendo il giusto.
So che tu condividi queste opinioni, ma meglio di me puoi spiegare come le unioni dei comuni, segnatamente nei territori cerniera come il nostro, potranno utilizzare il loro peso politico nei rapporti con altre popolazione dell'Umbria, del Lazio e della Toscana.
Tuo Pier

Caro Pier,
prima di infilarmi nello spazio insidioso in cui la storia ha cucito le cerniere degli accessi interregionali, consentimi di intervenire con alcune considerazioni su ciò che si intravede, a questo punto della discussione, sulla riforma endoregionale dell'Umbria, in cui è inserita anche la proposta delle unioni comunali, nel quadro del nascente federalismo.
Quanto tu dici sui vantaggi della cooperazione tra comuni è sacrosanto, ma bisogna vedere come essa sarà effettivamente impostata e stimolata. E' chiaro che le unioni sostituiranno le comunità montane, e possiamo solo dire che era ora. Ma se, come mi sembra di capire dalle prime indicazioni, le unioni riguarderanno solo i comuni con popolazione fino a cinquemila abitanti, e per di più in modo obbligatorio su materie predeterminate, temo che essa diventerà ben presto un nuovo fallimento dei ricorrenti tentativi di rendere effettivo il policentrismo dell'Umbria. I motivi sono diversi, ma si possono esemplificare tutti con due domande: come si può pensare che funzioni un'unione di piccoli comuni nello stesso territorio in cui insiste un comune di medie dimensioni se fra le due realtà amministrative non si realizza una cooperazione strutturale? Inoltre, come si può pensare che il sistema funzioni meglio di come funziona (non funziona) oggi, se esso non viene coordinato a livello di area vasta, appunto con logiche di coordinamento, e non certo di appesantimento burocratico come accade con l'attuale modo di essere delle province? E soprattutto, come si può pensare che la riforma abbia un senso se non si combatte alla radice il pericolo di creare solo nuove entità amministrative, prive di ogni spinta propulsiva, di quel dinamismo che al contrario dovrebbe essere l'obiettivo principale da perseguire già nella fase di impostazione, se non altro per vincere proprio quelle ostilità e quelle resistenze di cui tu giustamente parli.
Se poi a questo si aggiunge che, sempre a quanto se ne sa oggi, la riforma sembra tendenzialmente orientata a concentrare in poche agenzie regionali la gestione dei servizi generali, con un'impostazione anch'essa fortemente burocratica, per cui, dietro la parola magica dell'efficienza, di fatto si nasconderebbe la mai morta idea di un centralismo che si illude di controllare tutto in modo semplicistico, allora la nascita delle unioni comunali avverrà sotto un segno davvero disgraziato. Di fronte a una simile prospettiva, il centralismo francese impallidirebbe, e le unioni comunali francesi, che di quel centralismo sono un intelligente e sperimentato antidoto - e anche per questo sono tanto ammirate da te e da me -, sarebbero un esempio così lontano da apparire di fatto come un miraggio.
Dico questo, caro Pier, naturalmente per esorcizzare pericoli che ritengo esiziali per la nostra regione e per noi stessi. Come hai opportunamente evidenziato, noi siamo infatti territorio di confine, e quindi siamo da sempre naturalmente vocati ad intrattenere rapporti con le realtà confinanti delle province dell'Alto Lazio e della BassaToscana. Ma, per usare un eufemismo, siamo stati frenati - certo come gli altri territori dell'Umbria, e  ovviamente anche come gli altri territori di altre regioni in situazioni analoghe - dai mille vincoli posti da un neocentralismo regionale miope nascosto dietro il velo dei proclami policentrici. Ora si tratta di sbloccare finalmente questa situazione. E l'occasione c'è. Dunque bisogna agire, con lucidità e con tempestività.
Dobbiamo dunque sapere che i pericoli che ho indicato possono essere fugati se nei territori, a partire dal nostro, crescerà al livello giusto la consapevolezza degli interessi in gioco e delle potenzialità che la politica deve  saper utilizzare. Né va dimenticato che il federalismo è in arrivo, ed è proprio esso che dovrebbe convincere tutti della necessità di un duplice contestuale processo: da una parte il riordino degli enti nel senso di una loro drastica riduzione e, dall'altra, la spinta verso un sistema di cooperazioni multiple, incentivate e volontarie, e dunque un drastico processo di decentramento di funzioni che metta in gioco i territori e spinga le classi dirigenti locali a quel dinamismo di relazioni che fino ad oggi è stato ostacolato da limitazioni di vario tipo, compresi gli atteggiamenti rinunciatari delle stesse classi dirigenti locali. Si pensi, solo per fare un esempio, per un verso all'impossibilità di stabilire relazioni con università di altre regioni, e per altro verso all'accettazione passiva di decisioni prese altrove da parte dei nostri decisori politici.
Io penso che siamo all'inizio di processi di trasformazioni radicali mai visti, e che, come ho detto altre volte, saranno questi, con la forza della necessità, a costringere tutti a ripensare obiettivi e metodi in modo drastico e rapido. Però dobbiamo tutti sapere che la realtà corre e nessuno ci aspetterà.
Noi per intanto, caro Pier, abbiamo posto il problema. Creeremo a breve un'occasione di confronto pubblico e lì verificheremo che anche in altre zone della nostra regione e di regioni a noi vicine il tema del mettersi insieme per fare sinergia su diversi fronti (gestione efficiente dei servizi, risparmio, sviluppo) è ben presente, seppure in circoli ancora ristretti ed al livello delle prime riflessioni sulle vie da seguire. In fondo come stiamo facendo noi. Auguriamoci che almeno su questo non si riproducano gli atteggiamenti di noncuranza che purtroppo abbiamo dovuto registrare fino ad oggi su diversi temi non proprio marginali.
Tuo Franco


La rubrica di Orvietosì  "A Destra e a Manca" è alla sessantasettesima puntata. La rubrica è animata da Pier Luigi Leoni e Franco Raimondo Barbabella, la destra e la sinistra delle "cose".
Vorremmo attrarre i lettori nel ragionamento aperto da Leoni e Barbabella, non con i commenti, che in questa rubrica sono disattivi, ma con contributi firmati e spediti per e-mail a
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La rubrica esce ogni lunedì.

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Pubblicato il: 24/01/2011

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