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Una società che inganna i giovani si condanna al declino. Il futuro si fonda su responsabilità, desiderio di miglioramento e merito

A Destra e a Manca sessantacinque. La provocazione è:"Ogni volta che sento parlare dei giovani con accento di preoccupazione mi sento a disagio... Contributo di Nadia Formiconi, Massimo Gnagnarini

Caro Franco,

il Presidente della Repubblica ha dedicato il messaggio di fine anno soprattutto ai giovani. La cosa non mi è piaciuta. Ogni volta che sento parlare dei giovani con accento di preoccupazione mi sento a disagio. Infatti mi vengono subito in mente le sofferenze degli ammalati, dei vecchi e dei migranti e non posso non confrontarle con quelle dei giovani. Da una parte il dolore della malattia, la paura dell'abbandono, lo spettro della morte e della fame, dall'altra la forza, la salute e un mondo da conquistare. Allora il disagio dei giovani mi appare come il fallimento di noi genitori, che abbiamo loro imbottito il cervello con le nostre ambizioni, il nostro orgoglio, la nostra debolezza morale. E, se è vero che anche l'ambiente extrafamiliare ha una grande importanza, essi scontano i vizi e le debolezze di una intera società che è progredita economicamente, ma è regredita nei valori. Come vedi non incolpo i giovani, ma non credo che li aiutiamo con gli atteggiamenti compassionevoli. Dovremmo dir loro, chiaro e forte, che chi li blandisce non lo fa perché li compatisce, ma lo fa per interesse, o per dabbenaggine o, nel migliore dei casi, per "carineria": un termine odioso che designa una molto diffusa leggerezza e indifferenza morale. Dovremmo dir  loro, chiaro e forte, che devono farsi coraggio, che devono occuparsi di chi soffre e trarne occasione di riflessione sulle proporzioni delle cose. Dobbiamo dire con sincerità che non è vero che non c'è lavoro, altrimenti i veri poveri e disoccupati del  mondo non rischierebbero di affogare in mare o di asfissiarsi dentro un container per entrare in Italia. Non vi sono lavori idonei a soddisfare le loro aspirazioni. Segno è che qualcuno non ha spiegato loro che le aspirazioni devono tenere conto della realtà, altrimenti sono irragionevoli, velleitarie, immorali e foriere di nevrosi.

Quelli della nostra generazione, se avevano la possibilità e la voglia di studiare, potevano facilmente accedere alle professioni o almeno buscare un posto fisso. A molti mancavano la possibilità o la voglia di studiare, ma non piagnucolavano e nessuno li compativa. S'adattavano a lavori più umili, senza vergognarsi e senza essere considerati dei paria. Facevano i lavori che adesso sempre più fanno gli immigrati. Molti emigravano.  Non era una società giusta, e gli aiuti ai capaci e meritevoli erano inadeguati. Ma era una società più sana moralmente e meno piagnucolosa.

Se anche minimamente condividi il mio modo di vedere, tu che sei un uomo di scuola, spiega a me e ai nostri lettori come la scuola può aiutare i giovani a ritornare al reale.

Quanto a me, data la mia esperienza professionale e il mio ruolo di amministratore comunale, benché di terza e ultima fila, ti sottopongo una vecchia idea.

Ricordi i famigerati gemellaggi, che hanno inghiottito fiumi di denaro pubblico, sempre ambiguamente oscillanti tra la vacanza a sbafo e gli scambi culturali e umanitari? Sono sempre meno di moda, perché seriamente sputtanati, ma l'Europa ancora c'investe perché i popoli del centro-nord europeo impazziscono per il sole dei paesi mediterranei. Allora perché non organizzare viaggi all'estero per i giovani con lo scopo di far loro conoscere le realtà da cui provengono gli immigrati? Non ci sarebbe bisogno di portarli a dormire in certi  tuguri e di fargli ingurgitare certi cibi, basterebbe portarli ad annusare le persone povere e gli ambienti in cui esse vivono. La povertà ha un odore acre e penetrante, un odore che si fissa nella memoria e lubrifica le funzioni cerebrali.

Tuo Pier

 

Caro Pier,

già, tornare al reale, mi hai detto niente! Tu hai spiegato benissimo l'infernale bagno di inganni in cui una società irresponsabile rischia di affogare il suo stesso futuro, cioè i nostri giovani. L'inganno più grande: tutto è a portata di mano e la mano basta saperla allungare, anzi, se non lo fai tu perché magari è noioso, c'è di sicuro qualcuno che lo farà per te, basta cercarlo se non ti sta già vicino. L'inganno collegato: non devi preoccuparti, non devi sforzarti, ti proteggo io, guai se qualcuno ti sgrida o semplicemente ti guarda storto, guai se qualcuno ti fa notare che hai sbagliato o stai sbagliando, perché ti potrebbe traumatizzare. Un vero sistema diseducante, perché l'inganno dell'irresponsabilità, mentre uccide il desiderio (la spinta al nuovo, al miglioramento, al futuro) è massimamente diseducante. E una società che uccide il desiderio e diseduca i suoi giovani è sulla via della desertificazione morale e intellettuale, la via del declino, la fine della vita significante. Se a qualcuno le mie parole sembrassero esagerate o del tutto soggettive, per favore dia uno sguardo al 44° Rapporto Censis (che non è il Vangelo, ma non è nemmeno un passatempo della domenica).

Qui, caro Pier, sta il punto vero della questione dei giovani, e tu l'hai colto nel suo spessore più duro: non li si aiuta se non li si fa crescere con in testa ben chiaro che il futuro te lo devi conquistare, con lo sforzo necessario e l'assunzione delle tue responsabilità; la società ti deve fornire gli strumenti per farcela, ma non si deve sostituire a te in nessun modo e in nessuna fase. Ti deve assistere quando ne hai bisogno, ma tu devi darti da fare. Come ben sai, è l'etica della società borghese moderna, anche se forse più intellettuale che reale, che però in ogni caso è sempre stata poco popolare in Italia e naturalmente dalle nostre parti, dove sono stati e sono molto più di moda sia il pietismo che l'assistenzialismo (leggi anche clientelismo), che salvano molto la coscienza, ma non spingono le classi dirigenti a  cercare un rapporto ottimale  tra spesa sociale e qualità dei servizi, e creano anche, oltre ai guai morali, anche quelli di bilancio. Non voglio fare il qualunquista, ma mi sa che almeno su questo punto fra destra e manca non ci sono differenze esponenziali. E tralascio ovviamente le considerazioni su ciò che potrebbe accadere se la crescita dei nostri giovani dovesse ad un certo punto avvenire nelle condizioni determinate da un'illegalità diffusa e da comportamenti violenti non sufficientemente contrastati, come purtroppo sta accadendo in diverse parti del nostro Paese.

Vengo dunque al contributo che può dare la scuola, come tu mi solleciti a fare, e alla tua proposta di organizzare viaggi per far respirare ai giovani l'odore "acre e penetrante" della povertà. La scuola può fare molto, e in realtà già fa molto, seppure con differenze anche marcate tra zone del Pese, tra scuola e scuola e spesso all'interno della stessa scuola, come testimoniano tutte le indagini, sia casalinghe che internazionali, da ultimo l'indagine OCSE-PISA sulle competenze dei quindicenni in lingua madre, matematica e scienze. Detto di striscio, i dati generali di questa indagine, pubblicati lo scorso 7 dicembre, e quelli particolari, che usciranno nei prossimi mesi, dovrebbero essere studiati da ogni serio amministratore, perché dovrebbero diventare la base per reimpostare ad ogni livello le politiche strategiche per l'educazione dei giovani, dall'infanzia all'università e alla formazione superiore. Che cosa può fare dunque la scuola? La risposta generale, che può apparire banale, ma che a mio avviso non lo è affatto solo che la si intenda nel suo significato più pregnante, è che essa deve saper essere sistema e saper fare il proprio mestiere, non solo nel senso che non deve essere caricata di compiti impropri o improvvisati, senza preparazione adeguata e senza mezzi, ma nel senso che chi ci lavora deve essere ben preparato e deve perciò essere assunto per merito, deve essere sottoposto a valutazione trasparente e periodica, deve poter sperare di migliorare le proprie condizioni di vita mediante una vera carriera; poi, nel senso che il sistema deve disporre di mezzi adeguati per funzionare bene e ammodernarsi ogni volta che ce ne è bisogno; infine, nel senso che le strutture e la logistica devono essere tali da favorire i processi di istruzione e di formazione e non da renderli imprese spesso impossibili. Ma queste condizioni in larga misura non ci sono e comunque non sono certo un sistema. E allora nel frattempo che si fa? Certo quello che si può, ma anche quello che si deve. Ad esempio, bisognerebbe  almeno guadagnare una consapevolezza più diffusa che il mammismo è deleterio; che il merito deve essere la bussola di ogni valutazione; che la preparazione adeguata e l'impegno educativo dei docenti sono aspetti fondanti del loro codice deontologico, un dovere che prescinde dalle condizioni materiali in cui viene esercitata la professione; che lo stesso vale per il dirigente e per il resto del personale di ogni istituto. Bisogna educare alla responsabilità. Bisogna bandire ogni faciloneria e ogni atteggiamento furbesco. Bisogna respirare e far respirare aria di trasparenza e di legalità. Bisogna saper fornire stimoli ed esempi positivi. Mai demagogia, sempre capacità critica costruttiva. Tutte cose difficili, ma certamente necessarie, perché è necessario cambiare registro. A partire da chi deve per primo cambiare registro.

Ci sono infatti esempi continui di comportamenti diseducativi che minano dalle fondamenta la stessa opera che spesso meritoriamente la scuola riesce a fare. Pensa, caro Pier, a che cosa significano certi fatti in termini di messaggio diseducante. Cito scegliendo nel mazzo. Il primo: un Parlamento non eletto, ma nominato. Il secondo: lo stato di un sistema democratico in balìa dello scandalo del giorno. Il terzo: un'etica pubblica i cui modelli si pretende che siano stabiliti nei salotti televisivi. Il quarto: istituzioni pubbliche che pensano di organizzare un buon sistema territoriale di istruzione incentivando la competizione tra scuole sulla base di raccomandazioni. Si potrebbe continuare con un elenco allarmante. Non vale la pena, basta che ci siamo capiti. Non per questo ci scoraggeremo, anzi, siamo ancora più consapevoli che bisogna reagire, ciascuno come può nel luogo del suo lavoro o della sua vita. Meglio però se ci si organizza.

La tua idea di fare viaggi per far respirare ai giovani l'aria della povertà, cosicché possano capire - questo intendo del tuo messaggio - che l'avanzamento culturale e sociale è una conquista, dura da raggiungere e ancor più dura da mantenere, mi pare un'ottima idea. Però ti voglio proporre una riflessione, a seguito di un'esperienza già fatta. Dieci anni fa per due anni il liceo Majorana ha organizzato i viaggi di istruzione delle classi quinte in Tunisia, proprio per un contatto diretto con una civiltà realmente diversa dalla nostra per storia, cultura, religione, livelli di sviluppo e di organizzazione sociale. Siamo andati non solo a Tunisi e a Sidi Bou Said, ma a Tozer e nelle zone più interne fino al Sahara. Abbiamo apprezzato il folclore e i prodotti locali, ma abbiamo anche visto ciò che normalmente non piace ai turisti, abbiamo toccato i problemi della povertà a partire dalla carenza delle più elementari condizioni igieniche in molti luoghi. Però viaggiavamo in pullman con aria condizionata e guida che ci risolveva tutti i problemi. Soprattutto, soggiornavamo in alberghi a cinque stelle, con cucina occidentalizzata, acqua minerale e coca cola. Tu pensi che se avessimo organizzato le cose prevedendo contatti diretti con la povertà e se per questo fosse capitato qualcosa di spiacevole a qualcuno, noi scuola saremmo sopravvissuti alle accuse dei genitori e ai processi mediatici e forse giudiziari? Per carità, certamente giusti, se per guai derivanti da atteggiamenti e decisioni imprevidenti. Ma è chiaro che, senza alcun rischio e senza decisioni coraggiose almeno un po', non si governa nessun processo, né di educazione né di trasformazione sociale. Voglio dire in sostanza che i processi educativi sono ben dentro gli orientamenti e le sensibilità culturali e sociali, e se si vuole incidere su quelli bisogna incidere anche su questi. La nostra mi pare oggi una società che aspira ad avere il massimo per garanzia di qualcuno, e non per conquista faticosa con rischio personale. Per questo penso che c'è da fare un lavoro lungo e duro di riconversione, e forse anche di reinvenzione delle prospettive.

Tuo Franco


da Nadia Formiconi

Dalla Repubblica di oggi 10 gennaio 2001

Bologna, dramma in pieno centro
neonato muore di freddo e stenti

Devid Berghi, venti giorni appena, non è sopravvissuto. Salvati il gemello e una sorellina, grazie a un intervento del 118, il 4 gennaio. Vivevano con la mamma in piazza Maggiore e dentro la biblioteca Sala Borsa. La procura apre un'inchiesta

Magari basta arrivare al centro di Bologna dove, diceva Lucio Dalla, non si perde neanche un bambino.

È che gli occhi vedono solo quello che fa comodo e che ci è più prossimo.

È che non c'è Tunisia che tenga se fior di maestri ci hanno insegnato come fare a turarsi il naso e passare oltre.



da Nadia Formiconi

E no, troppo facile rispondere alla propria coscienza. L'egoismo non è stato mettere al mondo un figlio, e se lo fosse stato sarebbe un egoismo assolutamente personale del quale rispondere certamente solo alla propria coscienza, qui si tratta della cultura politica che si arrende e  diventa solo un mezzo di conservazione e difesa dei propri egoismi,di  mantenimento del privilegio proprio e dei propri prossimi ( figli compresi),di ignoranza e disattenzione delle condizioni di chi prossimo  a noi non  è e non vogliamo che lo diventi. Sono d'accordo, giovani e meno giovani,  basta piagnistei anche se mi viene un dubbio e una speranza: non sarà che a lamentarsi sono proprio quelli del famoso "chiagne e fotte", vale a dire quelli che in qualche modo riusciamo ancora a sentire, quelli che si lamentano e vogliono un "aiutino" proprio come dicono in televisione? Non sarà che tutti gli altri, quelli che "manco ti sento", più che lamentarsi sono, speriamo, ad un passo da ritrovare la voce e, come dice Gnagnarini, smettere di elemosinare aiutini e sfasciare, televisione compresa, i giocattoli?


La rubrica di Orvietosì  "A Destra e a Manca" è alla sessantacinquesima puntata. La rubrica è animata da Pier Luigi Leoni e Franco Raimondo Barbabella, la destra e la sinistra delle "cose".
Vorremmo attrarre i lettori nel ragionamento aperto da Leoni e Barbabella, non con i commenti, che in questa rubrica sono disattivi, ma con contributi firmati e spediti per e-mail a
dantefreddi@orvietosi.it , specificando nell'oggetto la rubrica "A destra e a manca".
La rubrica esce ogni lunedì.

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Pubblicato il: 10/01/2011

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