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Riflettere sull'Unità d'Italia ci potrebbe aiutare a capire noi stessi, come italiani e anche come orvietani

A Destra e a Manca 63. L'anniversario dell'Unità d'Italia ci trova freddi perché ci vergogniamo di non essere stati all'altezza dei valori che ispirarono gli uomini del Risorgimento...Contributo di Flavio Zambelli

Caro Franco,

il 2011 sarà l'anno della celebrazione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia. Nel 1861 l'Italia, da realtà geografica e culturale, divenne realtà politica e giuridica. Ma la storia nazionale di questo secolo e mezzo è stata caratterizzata più da ombre che da luci; e il popolo italiano ne risente. Le batoste in Africa nella seconda metà dell'Ottocento, l' "inutile strage" del 1915-18 e la "vittoria mutilata", l'infausta alleanza con la Germania nazista e la catastrofe della seconda guerra mondiale, hanno lasciato il segno. Ma mentre altri grandi popoli, come i Tedeschi, i Francesi, gli Spagnoli e i Giapponesi, sono stati rafforzati dalle disgrazie storiche, in Italia qualcosa ancora non va.

Dico solo a te e ai nostri 25 (o 2,5?) lettori la mia opinione.

La civiltà italiana si caratterizza proprio per essere, più che le altre,  civiltà cittadina. Del resto lo stesso termine "civiltà" deriva da "civitas", cioè da città. L'Italia è la nazione delle cento città. Gli Italiani si sentono quindi, non a torto, inventori e depositari di raffinatezze civili uniche sul pianeta. Ce lo conferma la catalogazione dei beni culturali mondiali, che trova l'Italia al primo posto e con grande distacco. Ce lo confermano il modo di vestire, di mangiare e di progettare i beni di lusso. La signorilità di un aristocratico italiano, ma anche di un borghese ben educato, non teme confronti. Ebbene, la coscienza di questi primati rende umilianti e psicologicamente insopportabili la carenze sul piano delle capacità militari, del senso civico e della morale pubblica. Quanto alla mafia, si tratta di un fenomeno rurale, maturato nella società postfeudale del Mezzogiorno, che ha infettato la modernizzazione di tutta la nazione. Una vergogna della quale portiamo il peso.

L'anniversario dell'Unità d'Italia ci trova freddi perché ci vergogniamo di non essere stati all'altezza dei valori che ispirarono gli uomini del Risorgimento. Tu sai quanto io sia sensibile, per il carattere che mi deriva  anche dall'educazione familiare, alle ragioni dei vinti, e quanto sia devoto alla memoria del beato Pio IX e del re Umberto II di Savoia. Tuttavia mi angustia che la celebrazione dell'Unità d'Italia sia oggetto più di polemiche che di entusiasmi, o almeno di sereno patriottismo.

Chiedo il tuo parere sugli aspetti generali, ma anche sull'opportunità di organizzare in Orvieto incontri sociali di vario genere per riflettere sulla storia del Risorgimento, partendo dagli eventi e  dai personaggi orvietani. Ovviamente ci si dovrebbe preoccupare particolarmente dei giovani, ma non trascurerei gli ex giovani che, in tutt'altre faccende affaccendati, forse hanno appreso troppo poco della parte che la nostra città ebbe in quei momenti cruciali della storia patria.

Tuo Pier     

 

Caro Pier,

questa volta scendi sul terreno che apparentemente mi è più congeniale. Ma solo apparentemente, perché in realtà tu ne sai quanto e più di me. Mi permetto di osservare solo che la tua rapida carrellata sulle storiche ombre che hanno lasciato il segno nelle nostre coscienze deve per forza includere le deludenti vicende che hanno accompagnato il percorso della nostra democrazia (percorso lungo:sessantadue anni su centocinquanta di unità). Cosicché in effetti siamo portati a dire: "Ma se l'epopea risorgimentale si concluse con l'edificazione di uno stato liberale debole e contraddittorio; se le speranze di un'Italia unita capace di competere con le grandi nazioni europee ci condussero alla prima guerra mondiale, al fascismo e alla seconda guerra mondiale; se le speranze di modernizzazione, avanzamento sociale, solidità istituzionale, sicurezza, solidarietà, insomma democrazia piena e vera, hanno infine dato luogo allo spettacolo indecente di oggi; dunque, se questi sono i risultati di centocinquant'anni di storia, perché non dovremmo essere freddi di fronte alle celebrazioni di un passato come questo e soprattutto delle sue origini?".

Ma è proprio così? E' un giusto criterio interpretativo quello che valuta il passato alla luce di ciò che è accaduto dopo e non di ciò che bisognava fare e si poteva fare allora? Perché, se è così, la volontà degli uomini nella scelta della via da percorrere non conta, e scompare di conseguenza anche ogni responsabilità degli esiti delle azioni compiute nelle circostanze date. Riferendoci alla storia recente della nostra città, con un criterio del genere dovremmo per esempio dare ragione a chi sostiene che tutti i mali di Orvieto hanno tratto origine da un'improvvida legge speciale che ha indotto fenomeni di degenerazione che altrimenti non ci sarebbero stati. Cosicché alla fin fine il disastro prodotto da una specifica logica politica, da certi metodi e dai loro interpreti si può superare semplicemente rimuovendo qualche persona, ma non necessariamente rimuovendo quella logica e quei metodi, che anzi si possono impunemente continuare (ricordo ancora il principio principe del falso rinnovamento: levati tu che mi ci metto io, per fare più e meglio di prima quello che facevi tu).

No, non credo che questo sia un buon criterio interpretativo. Ne preferisco altri, e tra gli altri quello che si può trarre da Sofocle (Antigone), quando dice: Non ho altro che disprezzo per l'uomo di governo che ha paura, /per qualsiasi ragione, di seguire la via che sa migliore per lo stato. Perché questo è un buon criterio? A mio parere lo è perché, fermo restando che il fondamento di ogni analisi storica metodologicamente corretta resta la contestualizzazione dei fatti realmente accaduti, in tale operazione dovrebbe avere sempre il giusto spazio l'analisi delle opzioni possibili e dei motivi, personali e non, che hanno portato i responsabili delle scelte a farne, tra quelle possibili, una e non un'altra.  E questo criterio appunto consente, da una parte di comprendere la storia, e dall'altra di giudicare, non moralisticamente ma eticamente, chi ha fatto scelte sbagliate sapendo che erano sbagliate in partenza, cioè in malafede, magari per interesse personale o di gruppo o giustappunto per paura. Ciò che ritengo non giustificabile, né quando ci poniamo di fronte ai fatti storici con animo distaccato e sereno, né quando, presi dalle passioni del presente, ci immergiamo nella lotta politica per affermare le nostre ragioni.

In ogni caso va ricordato quanto sosteneva Benedetto Croce (La storia come pensiero e come azione), cioè che "la storia è sempre storia contemporanea", perché lo storico va sempre a cercare in un'epoca passata le ragioni di ciò che la vita presente gli chiede di sapere, per orientarsi, appunto per vivere. Naturalmente Croce si riferiva a chi vuol conoscere in buona fede, non certo a chi fa finta di conoscere per diffondere una conoscenza scorretta e appositamente deviante.

La questione così posta riguarda ovviamente anche il nostro Risorgimento e l'Unità d'Italia, perché le celebrazioni, se hanno un senso, lo hanno solo in quanto diventano un'occasione per capire meglio noi stessi. Ripeto però, non nel senso di attribuire a Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Mazzini, le colpe dei mali che ci affliggono oggi, ma nel senso di capire perché hanno fatto le scelte che hanno fatto nelle circostanze che allora si determinarono nel contesto in movimento della politica europea e italiana. Dunque una modalità corretta di conoscenza che ci può essere utile anche per orientarci nel presente, cogliendone lo spessore dei problemi senza i consueti pregiudizi.

Da questo punto di vista può essere utile tenere a mente quanto disse un anno fa lo storico Lucio Villari in un'intervista rilasciata in occasione della pubblicazione del suo ultimo lavoro proprio sul nostro Risorgimento (Bella e perduta. L'Italia del Risorgimento, Editori Laterza, Bari, 2009): "Il Risorgimento è stato spesso soffocato dalla retorica. Adesso invece accade il contrario: ricorrenze e festeggiamenti ne coprono il senso più vero, di humus fondamentale delle nostre origini, mentre le vicende risorgimentali si presentano sempre più come reperti d'antiquariato. Con Berchet, Carducci, Mameli, Ippolito Nievo, ma anche con Carlo Cattaneo e Vincenzo Gioberti, questo momento della nostra storia fu epico e combattivo . Il Risorgimento fu una felice congiunzione astrale sotto il segno della modernizzazione. Per dirla con una battuta: la strada ferrata appena impiantata faceva da volano alla rivoluzione. Un momento memorabile anche per la giovinezza dei protagonisti, da Mazzini a Garibaldi a Mameli - che compone l'inno d'Italia a 20 anni e muore durante la repubblica romana del 1849 a soli 22 anni -, a Ippolito Nievo che a 17 anni partecipa al primo tentativo insurrezionale. Uno spirito unitario che nulla ha a che fare con i nazionalismi e torna ciclicamente a dare impulso alla nostra storia". E, citando proprio Benedetto Croce, sull'attualità degli avvenimenti narrati ha aggiunto: "Ci sono popoli, come ci sono individui, che hanno tratto forza di rinnovamento dalla nausea di se stessi, cioè del loro passato".

E' quello che dici tu ad esempio a proposito di Tedeschi, Francesi, Spagnoli e Giapponesi, ma io direi anche, con tutte le differenze, sia dei popoli asiatici e africani, sia in particolare di quelli dell'Europa dell'Est.

Su chi siamo come popolo italiano e perché siamo quello che siamo, e addirittura se siamo davvero un popolo con una sua identità consapevole e praticata, la discussione continuerà ben oltre le celebrazioni del centocinquantesimo dell'Unità. Peraltro non possiamo nemmeno essere certi che sia stato fatto quanto subito dopo l'unità disse Massimo D'Azeglio: "Abbiamo fatto l'Italia, si tratta adesso di fare gli italiani".  D'Azeglio sapeva che sarebbe stato difficile, ma anche che in altre parti d'Europa questo era avvenuto (ad esempio in Francia e in Inghilterra), ed era avvenuto proprio nel modo che diceva lui: prima si fa lo Stato e poi la Nazione, cioè il popolo. Allora, se in Italia non è avvenuto, bisognerà chiedersi non solo perché, ma anche che cosa c'è da fare perché avvenga, ammesso che siamo d'accordo che sia un bene che avvenga, come io personalmente continuo a credere. In questo senso ci possono aiutare alcuni riferimenti essenziali, a partire dal celebre Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani di Giacomo Leopardi (1823), di strepitosa attualità, per passare attraverso l'altrettanto celebre e attuale Gli italiani di Luigi Barzini (1964), fino alle riflessioni di Alberto Arbasino in Un Paese senza (1980/90) e alle analisi dei Rapporti annuali del Censis, in particolare dell'ultimo, quello del 2010.

Mi accorgo ora di aver allargato molto il discorso. Torno dunque alla proposta che fai nelle ultime righe. Sì, sono molto d'accordo che sarebbe utile che anche qui da noi si ragionasse su quegli avvenimenti di storia patria anche alla luce del coinvolgimento, che ci fu eccome, del nostro territorio nel processo risorgimentale. Io lo farò anche sul piano professionale, giacché il liceo Majorana sarà tra i protagonisti delle celebrazioni e proprio con un laboratorio sugli avvenimenti che riguardarono da vicino Orvieto. Ritengo che potremmo però anche noi fare cose significative proprio in direzione degli adulti, che forse possono trarre qualche beneficio dalla conoscenza del momento fondativo della nostra nazione. Peraltro penso sia di grande attualità in particolare la riflessione sull'organizzazione dello Stato, che allora incluse Orvieto nell'unica provincia dell'Umbria, di cui il primo prefetto fu l'orvietano Filippo Antonio Gualterio. Chissà che la conoscenza di quella fase non ci aiuti ad aprirne un'altra, presumo non facile, ma forse non meno interessante di quella. Magari anche necessaria e possibile.

Tuo Franco


da Flavio Zambelli
Carissimi amici del COVIP si conclude in questa settimana l' anno 2010 ; si conclude con un importante risultato : è passata la mozione di Pier sulla tutela dei calanchi, seppur con parziali ma non strutturali modifiche. Questa è una vittoria di Pier, è una vittoria del COVIP, è una vittoria per la Città di Orvieto. Ora sta alla Regione rispettare il voto dell'assemblea cittadina orvietana. Si conclude l'anno 2010  con il probabile salvataggio sulla linea di porta del patto di stabilità grazie all'anticipazione della  somma che la Regione deve al Comune di Orvieto a copertura delle spese d'appalto per i lavori della Complanare. Una specie di by-pass per le casse comunali e per l'amministrazione del sindaco Concina. Ovviamente le somme in base ad un'interpretazione elastica erano dovute; e anche altri Comuni amministrati dal centro-sinistra ne beneficeranno di questa interpretazione estensiva. Quindi le forze di opposizione di Orvieto non devono lasciarsi andare  ad atteggiamenti eccessivamente demagogici, affermando che la Regione ha elargito un regalo all'amministrazione del Comune di Orvieto. Non c'è stato alcun regalo, si sono semplicemente applicate le procedure di legge, con un'interpretazione più favorevole per i Comuni. Come da voi anticipato, l'anno 2011 sarà l'anno delle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia; quando si celebrarono i 100 anni , nel 1961 io non era ancora nato ed ero ancora lontano dal nascere; quindi per me questa celebrazione dell'anno in corso rappresenta una novità assoluta. Gia'!! il 1961; l'anno della figuraccia di Kennedy con il fallito sbarco alla Baia dei Porci; figuraccia poi riscattata nel 1962 con la soluzione della crisi dei missili di Cuba. L'Italia era allora  in piena crescita economica; usciva poi nell'anno seguente il film di Dino Risi "Il sorpasso". Il personaggio interpretato da Vittorio Gassman si chiamava Bruno , guidava l'Aurelia ed era un personaggio guascone  e fanfarone,  il simbolo dell'Italia del miracolo economico di quegli anni. Oggi di miracoli economici non ne parla più nessuno; neanche il premier Berlusconi, che in anni passati prometteva "un nuovo miracolo italiano". Oggi l'economia ha una crescita pari allo 0; lo Stato e il nostro Comune sono sempre caratterizzati da un forte indebitamento. In queste condizioni non è facile rispolverare il sentimento patriottico dell'Unita' nazionale. Le forze politiche di questa cosiddetta Seconda Repubblica sono divisi e dividono il Paese,offrendo  uno spettacolo inverecondo, da far rimpiangere i partiti tradizionali della Prima Repubblica. Questi partiti  erano divisi dalla Guerra fredda, ma sulle questioni essenziali della Nazione riuscivano in qualche modo, a trovare delle intese nelle sedi istituzionali competenti . Naturalmente noi dobbiamo essere sempre grati a quei personaggi del Risorgimento che hanno favorito il raggiungimento dell'unità nazionale. Dal Re Vittorio Emanuele secondo, a Garibaldi, al Conte di Cavour, a Giuseppe Mazzini. Che poi dopo, gli errori dei governanti futuri hanno reso il sentimento patriottico come un elemento di difficile coesione, questo non cancella l'importanza del traguardo raggiunto nel 1861. Traguardo completato poi nel 1870 con la liberazione di Roma . Questo avviene , perché la Storia è fatta dalle organizzazioni e dagli uomini che ne sono a capo. Sono gli uomini che fanno la storia. Purtroppo di Vittorio Emanuele secondo, incoronato re d'Italia il 17 Marzo 1861, ce n'era uno solo. Un altro discendente di Casa Savoia, Vittorio Emanuele terzo, non ebbe lo stesso coraggio del nonno. Non si oppose in tempo all'ascesa del fascismo, non si oppose in tempo alle leggi razziali e all'alleanza con il Nazismo della Germania di Hitler.Il Gran Consiglio del Fascismo che aveva all'ordine del giorno la destituzione di Mussolini arrivò con tre anni di ritardo. Né il Re , né il Conte Galeazzo Ciano, né gli altri gerarchi moderati, per convenienza, per opportunismo o per mancanza di coraggio, ebbero la forza di prendere quelle drastiche decisioni nel Maggio del 1940; quando l'Italia poteva ancora essere salvata dalla tragedia ; Il Gran Consiglio arrivò il 25 Luglio 1943: con tre anni e due mesi di ritardo. Meglio tardi che mai; ma era certamente troppo tardi.  E poi, dopo l'armistizio di Badoglio del 8 Settembre 1943 il Re scappò a Brindisi lasciando l'Esercito italiano in piena confusione, senza ordini  precisi e in balia delle truppe d'invasione nazi-fasciste. Vorrei ricordare che una dittatura di stampo fascista ben più sanguinaria del fascismo italiano fu quella del" caudillo" Francisco Franco in Spagna. Ma la felice intuizione di evitare l'intervento in guerra, comportò per la Spagna un passaggio più lento e meno traumatico dal fascismo alla democrazia; il tutto in un sistema in cui i poteri di Governo convivono serenamente con la Monarchia costituzionale del Re Juan Carlos; lì non c'è stato  bisogno di cacciare via il Re, come è successo in Italia dopo gli eventi drammatici della guerra e della Repubblica di Salò. Questo perché la Storia è fatta dalle condizioni sociali, economiche, culturali; ma soprattutto è fatta dagli uomini che ne condizionano gli eventi. Buon Anno 2011 a tutti voi e a tutti i nostri lettori.


La rubrica di Orvietosì  "A Destra e a Manca" è alla sessantatreesima puntata. La rubrica è animata da Pier Luigi Leoni e Franco Raimondo Barbabella, la destra e la sinistra delle "cose".
Vorremmo attrarre i lettori nel ragionamento aperto da Leoni e Barbabella, non con i commenti, che in questa rubrica sono disattivi, ma con contributi firmati e spediti per e-mail a
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La rubrica esce ogni lunedì.

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Pubblicato il: 27/12/2010

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