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Centro storico e Casermone

A "Destra e a manca" affronta due dei temi cruciali della politica ammnistrativa cittadina, tuttora senza progetti e senza futuro. Alcune idee su cui ragionare per maturare pensieri

foto di copertina

Caro Franco

mentre la nostra città sta scegliendo tra un accordo destra-sinistra e la dichiarazione di fallimento, consentimi di portare il discorso su un argomento il cui peso va oltre gli avvenimenti in corso. Mi riferisco alla situazione del centro storico e alla speranza della sua rivitalizzazione, alimentata soprattutto dalle opportunità offerte dal Casermone. So che sei l'orvietano più consapevole dell'argomento, anche se sei ingiustamente costretto in una situazione di difesa che si risolverà presto a tuo favore, come sempre ti è successo. Ma se è vero che " 'l modo ancor m'offende", non dobbiamo limitare la nostra libertà di colloquiare su questo importate argomento.  

Veniamo al dunque. Ti dico come la vedo io.

La città di Orvieto è caratterizzata da un centro, ormai quasi completamente "storico", anche nelle sue componenti del dopoguerra. Il centro storico, per la sua collocazione su un acrocoro con versanti verticali, ha resistito abbastanza bene allo scempio dell'edilizia del secondo Novecento. Un po' per l'equilibrio e il senso del limite degli Orvietani e dei loro amministratori, un po' perché l'ebbrezza del potere programmatorio, la fame di case nuove e gl'interessi di progettisti e di costruttori hanno trovato sfogo nel suburbio e nelle campagne meno lontane. In tutta Italia, il secondo Novecento, dal punto di vista urbanistico ed edilizio non è stata un'epoca felice. Orvieto ha fatto la sua parte, anche se meno peggio di qualche altra zona d'Italia. Non vale la pena di tornare su temi tristemente già dibattuti.

Ma il centro storico fa storia a sé. In esso spicca la presenza di tre componenti:

a) l'edilizia medievale, che raggiunge il culmine eccelso nella Cattedrale (cui furono saggiamente chiamati a operare i geni dell'arte senese del Duecento e del Trecento) e che è presente o almeno leggibile in una parte consistente della città;

b) l'edilizia rinascimentale, legata alla lunga presenza dei Papi nel Cinquecento, nella quale spicca il genio orvietano di Ippolito Scalza, prolifico e longevo architetto, scultore, costruttore;

c) l'edilizia del regime fascista, rappresentata soprattutto dalla Casa del Balilla (subito destinata all'Accademia Femminile di Educazione Fisica e, nel dopoguerra a Scuola Militare di Educazione Fisica (SMEF) e, da pochi anni, a Caserma della Guardia di Finanza), dall'Istituto di riadattamento sociale (oggi un carcere qualsiasi) e dalla Caserma dell'Aeronautica (poi Caserma Piave).

La enorme Caserma Piave, edificata a suo tempo a spese del Comune di Orvieto, rappresentò per sessant'anni una fonte di ricchezza per la città. È passata alla storia come una fortuna, anche perché la politica vaticana riuscì a tener fuori Orvieto dai bombardamenti alleati, per i quali la Caserma era un attraente obiettivo.

Alcuni anni fa la Caserma Piave è stata dismessa e tutto il complesso, per contratto, è passato al Comune di Orvieto. Il fatto ha scatenato le speranze, ma anche i sogni, l'immaginazione e gli appetiti degli Orvietani, e non solo. L'amministrazione comunale si è mossa in ritardo (si sapeva da dieci anni prima che la Caserma sarebbe stata dismessa) e in modo schizofrenico. Peraltro la disponibilità dell'ex Caserma (un valore patrimoniale tra 25 e 50 milioni di euro) ha contribuito ad alterare negli amministratori comunali, la percezione del limite alla spendita del pubblico denaro. Analogamente era successo con la grande discarica delle Crete, che, contro le aspettative, ha portato tanta immondizia (anche morale)  e poche ricchezze.

La ex Caserma rappresenta comunque una risorsa per la cui valorizzazione occorrono grandi idee e ingenti capitali. Compito dell'amministrazione comunale è cercare le grandi idee, contenendo la pericolosa ambizione al "faidaté", e i grandi capitali.

La valorizzazione dell'ex Caserma può dare al comune, conservando esso la proprietà, un utile diretto di parte corrente, consistente in canoni locativi e/o concessori, oppure, rinunciando alla proprietà, un introito necessario per ridurre l'indebitamento a lungo termine che affligge con rate annue pesanti il bilancio comunale.

La valorizzazione dell'ex Caserma deve comunque dare a Orvieto una occasione di crescita.

La destinazione dell'ex Caserma non dovrebbe prescindere da uno studio per la riprogettazione urbanistica del Carcere, della Caserma della Guardia di Finanza e delle relative pertinenze. I tempi della dismissione del Carcere e della Caserma della G.d.F. potrebbero essere più vicini di quanto comunemente si crede e comunque potrebbero essere accelerati, anche grazie a una razionale progettazione urbanistica di quella vasta zona adiacente all'ex Caserma Piave.

Quindi è l'ex Caserma Piave il nodo centrale. Mi pare chiaro che la rivitalizzazione del centro storico di Orvieto sia legata soprattutto allo sviluppo dei servizi offerti a un vasto territorio: servizi pubblici, compresi quelli scolastici, ricettivi, professionali e, soprattutto, commerciali. Ogni città storica è un centro commerciale naturale. Per adeguarsi ai tempi le occorrono spazi ampi per parcheggi e per strutture moderne che integrino quelle tradizionali. Altrove questi spazi non ci sono. Ma in Orvieto, per fortuna, "il Casermone c'è".

Tuo Pier

 

Caro Pier,

è vero, non parlo volentieri della vicenda Piave e la causa è quella che tu, sapendo come l'ho vissuta, indichi con l'elegante emistichio dantesco "e 'l modo ancor m'offende". E' appunto il modo in cui tale vicenda si è sviluppata e conclusa, per la parte che mi ha visto impegnato per quasi tre anni in prima persona, insieme agli altri membri del CdA di RPO Spa, nel tentativo di individuare una soluzione di riuso insieme realistica e dotata di futuro, cioè non speculativa e davvero funzionale al rilancio del centro storico di Orvieto e del territorio. Non voglio rivangare quella vicenda, ma - almeno per quel che io ho potuto percepire - non ci si deve nascondere che la città, anche negli ambienti e nelle persone più consapevoli, ha evitato di approfondirne il senso, ritengo per le stesse ragioni che la rendono molto permeabile agli stimoli dei guelfi e dei ghibellini di turno e, al contrario, molto meno a quelli di chi indica la paziente, meditata e faticosa via delle soluzioni razionali, elaborate e progettate all'interno di una strategia e di una visione generale. Ciò che peraltro impedisce di valutare seriamente gli errori, di capire chi li ha fatti e perché, e di porvi rimedio. Si tratta forse di cecità indotta e interessata o di dinamiche perverse o di miopia, incoscienza e voglia di farsi male, o di tutto questo un po'? Non so, perché nei miei ricordi c'è che vicende che hanno lo stesso segno di quella che ha riguardato RPO Spa sono accadute più di una volta. Voglio dire che in questa nostra amata città, quando è chiaro che qualcosa di importante può essere effettivamente realizzato, allora scatta, o viene fatto puntualmente scattare, un meccanismo perverso, per cui tutto si ferma, le energie vengono azzerate, le idee bruciate, le persone lapidate. Il risultato generale è che la città e l'intero territorio sono sostanzialmente tornati a prima degli anni '80, e, in quanto alla Piave, si sono buttati al vento, oltre al lavoro fatto, anche quattro anni di possibile rendimento (solo per le casse comunali, non meno di otto, dicasi otto, milioni di euro). Ma di questa vicenda, come delle altre analoghe che l'hanno preceduta, non si discute nel modo e al livello giusto per evitarne di nuove. Si preferisce restare in superficie o ignorare, si fa finta di niente, o, peggio ancora, si lascia correre o addirittura si alimenta la maldicenza. Tutti sappiamo però che il passato non digerito pesa, sia per il modo di fare che per ciò che si fa o non si fa. In particolare ne deriva un modo distorto di selezionare la classe dirigente. E le conseguenze si possono leggere anche  nelle vicende attuali, se è vero che - a meno di colpi di scena dell'ultima ora - si raggiungerà sì un accordo per evitare il commissariamento e il dissesto, ma non con la lucidità di chi sa che non si può continuare a ballare sul ponte della nave che rischia il naufragio.

Insomma, caro Pier, dovremo certamente rallegrarci se un accordo ci sarà, anche ai minimi termini, ma la distanza tra il bisogno di rilancio della città e la capacità della classe dirigente, generalmente intesa, di interpretarlo resta davvero grande. E io penso da anni, e oggi con maggior convinzione, che finché non si porrà come discrimine per candidature, incarichi, responsabilità di ogni tipo, da una parte l'interesse generale, e dall'altra la conclamata capacità di interpretarlo, tale gap non sarà superato. Ad Orvieto, come da altre parti. Questo non è né "il tempo delle mele" né quello della bacchetta magica, e ci tireremo fuori dal pantano solo se prevarranno le virtù dei tempi difficili.

Mi inoltro ora nella questione che tu mi poni con grande lucidità, e che, se non ho capito male - visti anche i tuoi interessanti corsivi sull'argomento -, si potrebbe formulare così: posto che lo sviluppo urbano delle periferie e le stesse esigenze endogene del centro storico richiedono per esso strategie urgenti di rivitalizzazione (e meno male che non usiamo più il termine ridensificazione), può il Casermone rappresentare il fulcro di una nuova progettualità di grande respiro? Rispondo subito di sì, ed anzi, il legame che tu stabilisci con la ex SMEF e con il complesso del Carcere di via Roma porta il discorso al livello giusto di complessità e di ambizione, perché di fatto questo vuol dire ragionare di un quarto del centro storico, cioè di fatto del centro storico stesso e del territorio di cui è elemento di pregio e possibile motore. Devo ricordare, non certo per gusto di autocitazione, che all'inizio degli anni '90, Adriano Casasole, da poco sindaco, mi chiese di formulare una proposta per un nuovo uso appropriato della SMEF (allora era questo il tema, e la questione Piave ancora non era all'orizzonte), ed io gli consegnai un documento che considerava insieme i tre grandi complessi, non per interventi contestuali e immediati, ma con l'ottica dell'intervento specifico all'interno di una visione progettuale complessiva. Ad esempio, per la SMEF proponevo di localizzare lì tutte le scuole di Orvieto, insieme ad una università, centri di ricerca, strutture e attività culturali e turistiche, che avrebbero potuto trovare spazio negli edifici del carcere e del casermone. Proponevo anche di trasferire il carcere all'esterno della città e mettevo in discussione il tipo di economia e di mentalità che dalla presenza massiccia di militari si era radicata nel tessuto culturale e sociale, seppure anche con benefici indubitabili. Non se ne fece nulla, per ragioni che non è difficile intuire. Anzi, le cose sono andate come tutti sanno.

Poi è venuta la ex Piave. Come di sicuro ricordi, io non mi sono mai stancato di ripetere che la mission di RPO doveva essere inquadrata in una mission più ampia, quella stessa della città e del territorio, ed era perciò, nei fatti, uno strumento per la riqualificazione e il rilancio dell'intero contesto urbano. Non a caso il progetto complessivo di riuso seguiva una logica di coerenza sia interna che di contesto, i cui pilastri erano l'unitarietà del piano di rifunzionalizzazione, la sua interconnessione con la città e il territorio, le soluzioni caratterizzate da flessibilità e realizzabilità, le funzioni distintive e con forte valore aggiunto rispetto ad altre città. Io credo che se si vorrà riprendere l'opera di rifunzionalizzazione della Piave con la lungimiranza necessaria, bisognerà ripartire con tale logica. E permettimi anche di dire che le stesse soluzioni specifiche allora immaginate (strutture turistiche: alberghi di qualità, centro benessere, intrattenimento; strutture culturali: museo di arte moderna, centro mostre, multisala; strutture congressuali e per grandi eventi: "teatro di vigna grande"; strutture direzionali: uffici decentrati di grandi aziende; strutture per il commercio: grandi negozi capaci di garantire una vasta offerta merceologica di qualità; strutture formative: formazione universitaria, scuola europea del restauro, scuola europea della cucina, scuola di formazione alberghiera; e poi parcheggi e altri servizi) in quell'ottica possono risultare ancora utili. Bisognerà comunque evitare il peso eccessivo della parte pubblica e fare i conti con il mercato, ma senza svendere un patrimonio che è assolutamente strategico, soprattutto se considerato in correlazione con gli altri grandi contenitori: gli altri due della stessa area, l'ex ospedale ed altri ancora. Vendita o concessione? La questione non è per nulla ideologica, ma di strategia e insieme di prudenza e di calcolo dei vantaggi. Personalmente propendo per la concessione, sia perché garantirebbe una liquidità annuale costante di una certa consistenza, sia perché, soprattutto in una fase storica come questa, temo che chi acquista lo vorrà fare a prezzi stracciati e, soprattutto, una volta fatto l'affare, troverà il modo di farci quel che vuole, in barba ad ogni buona e lungimirante destinazione d'uso stabilita dal Comune.

Questo modo di intendere le soluzioni, sia quelle immaginate agli inizi degli anni '90, sia quelle progettate per la Piave tra il 2004 e il 2005, avevano alle spalle la logica di quel complesso di idee e di interventi che negli anni '80 fu chiamato "Progetto Orvieto". Come ti ho detto nella puntata di lunedì scorso, mi fa piacere che oggi il sindaco Concina, l'assessore Romiti, tu ed altri, riprendiate quel titolo. Dal tuo modo di ragionare penso che ci sia anche la volontà di riprenderne la logica, una progettualità strategica in cui ciascuna funzione possa trovare il suo senso. Perciò, caro Pier, nonostante il gap cui ho accennato sopra e comunque in ossequio alle sfide dei tempi difficili, dico che è forse giunto il momento di darci sotto. E' tempo di ritirarci in meditazione collettiva, mettere insieme le forze e tirar fuori quel che di meglio possiamo.

Tuo Franco


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Pubblicato il: 15/02/2010

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