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NOTIZIE CORSIVI

Gli Orvietani hanno un carattere?

Ritrovare la via di una comunione civica largamente compromessa se non quasi perduta

foto di copertina

Caro Pier,

anch'io sinceramente spero che il Santo Natale, con la sua magica atmosfera, ci aiuti, oltre che a concentrarci sugli affetti di parenti e amici, anche a ritrovare la via di una comunione civica largamente compromessa se non quasi perduta. D'altronde in fondo è di questo che stiamo ragionando da oltre due mesi e di questo ci occuperemo principalmente nel forum di martedì 29. Lì certamente dovremo accennare, come tu proponi, anche al "carattere" degli Orvietani, giacché il tema di quale sia la classe dirigente di cui abbiamo bisogno per uscire dalla difficile situazione di oggi richiama inevitabilmente quello delle aspettative, delle sensibilità degli orientamenti diffusi e dei comportamenti effettivi dei quali essa deve tener conto.

Prima però sento di dover chiosare a mia volta le tue considerazioni sul "senso comune" e sul "patto per la città". Sul primo punto confermo la tua impressione: "coscienza del tempo", "visione strategica" e "responsabilità civica", sono di sicuro concetti del senso comune. Debbo però chiarire che quando dico "senso comune" ho in mente l'espressione inglese common sense nell'accezione utilizzata dal filosofo settecentesco Thomas Reid, che non indica quello che in italiano diciamo buon senso, ma "il legame sociale che permette alle persone di ragionare e di capirsi". Il problema, naturalmente a parer mio, è appunto che, non essendo quei concetti presenti come "senso comune" della classe dirigente, vanno richiamati e riscoperti. Sul secondo punto, se le cose stanno come dici tu - e perciò non ne dubito -, non posso che esprimere dispiacere per lo stato delle cose di questo momento e però anche la speranza che possa essere rapidamente modificato. Capisco che ci sia diffidenza per operazioni di alto profilo dopo anni di abbandono e di scontri sul niente, ma - occorre ripeterlo con tutta la forza possibile - ciò che va assolutamente evitato è il tirare a campare: la realtà non lo consente. D'altronde non c'è il tempo per operazioni di lungo periodo e perciò è dalla classe dirigente attuale che debbono venire i cambiamenti necessari ad impostare da subito il futuro possibile.

Vengo ora alla questione che tu poni: si può parlare, ed eventualmente in quali termini, di un carattere degli Orvietani? Questione significativa perché, come tu dici, conoscere difetti e pregi della nostra comunità può essere di aiuto per uscire dalle difficoltà in cui ci dibattiamo. Ma questione complessa, anzi, un intrico di questioni, per dipanare il quale non possiamo chiedere aiuto nemmeno alle scienze sociali se non in minima parte. Dobbiamo semmai affidarci alle impressioni, alle intuizioni, alle sensibilità personali, ciò che evidentemente è insicuro e fragile, magari frutto di incrostazioni tramandate più per pigrizia che per analisi corroborate da dati di fatto. Insomma si tratta di un terreno caratterizzato non da verità ma da stereotipi, che tuttavia, come quelli riferiti ai popoli, hanno certamente anche tratti di verità che non vanno negati nel senso che trovano spesso un qualche riscontro. Si pensi al dibattito sull'identità degli italiani intesa come "carattere nazionale italiano", un dibattito ricchissimo che va da Giacomo Leopardi a Luigi Barzini ad Alberto Arbasino, solo per citare alcuni tra i più noti intellettuali che hanno affrontato la questione. Sul carattere delle comunità locali la discussione diventa ancora più articolata. Non posso però non ricordare che Benedetto Croce rifiutava decisamente l'idea stessa di un "carattere nazionale" e diceva: "Qual è il carattere di un popolo? La sua storia, tutta la sua storia, nient'altro che la sua storia". Appunto, direi idem per le comunità locali, e dunque anche per la nostra: se vogliamo capirci qualcosa dobbiamo dire semplicemente che non c'è né ci può essere un carattere definito e stabile, ma un insieme di caratteristiche, frutto di sedimentazione storica per vicende generali e particolari. Magari su tutto ciò potremo fare interessanti approfondimenti sia in questa nostra rubrica, sia in un apposito forum, sia in altri modi, ad esempio organizzando dibattiti sul "Discorso sopra il costume presente degli italiani" di Giacomo Leopardi o su "Gli Italiani" di Luigi Barzini. Per gli Orvietani invece, per ora, e in attesa di decisioni sulle iniziative più opportune, basiamoci immodestamente su noi stessi. Ti propongo perciò un'autocitazione. Si tratta di un articolo scritto per "Heimat" giusto dieci anni fa sul carattere dominante di Orvieto: "Più volte sono ricorso alla definizione che ne aveva dato molti secoli fa Fazio degli Uberti, per indicarne il tratto distintivo: città "alta e strana". E' quella congiunzione che fa la differenza: la categoria dello strano designa storicamente, per il suo stesso etimo - extraneu(m) "estraneo", da extra "fuori" -, chi esce dal normale e perciò genera stupore, o anche sospetto, ed è per questo considerato "straniero". In fondo, forse proprio perché città alta e separata dal suo stesso territorio, Orvieto sembra considerare se stessa e comportarsi come estranea e perfino straniera. Se scendi da Buonviaggio in qualche mattina d'autunno può accaderti di vedere il Duomo uscire su dal gran mare di nebbia che invade la vallata e di avere l'impressione di trovarti di fronte ad una gigantesca nave immobile, arenatasi chissà quando e in perenne attesa di ripartire. Allora ti viene in mente la difficile condizione dell'equipaggio e del suo capitano e quella dei passeggeri, costretti a navigare senza mare, senza poter toccare altri porti e incontrare altre genti. Mi sono chiesto tante volte se la "stranezza" fisica della città abbia avuto una qualche influenza sulla "stranezza" delle vicende dei suoi cittadini. Qualunque sia la risposta, è certo che, mentre essi sono in grado di guardare dall'alto, trovano, senza averne colpa, una certa difficoltà a guardarsi dall'alto. Ed essendo passeggeri di una nave di terra, spesso litigano fra loro per cose futili pensando che il mondo sia tutto lì. Eppure basterebbe spostarsi un po' e salire su verso le colline che portano ad Allerona, il punto più alto del territorio, per rendersi conto che Orvieto non è così alta come sembra a qualche suo abitante e che la sua stranezza sta tutta nel suo sentirsi e comportarsi da nave di terra. Da lassù, da Allerona, lo sguardo può spaziare verso Sancasciano, Radicofani e l'Amiata, o verso Città della Pieve, Perugia e l'Appennino. Da lassù Orvieto apparirà ancora bella e maestosa, importante e preziosa, ma ben inserita nel suo territorio, parte di un tutto più vasto, più ricco, più dinamico e stimolante".

C'è questo, ma, caro Pier, c'è anche il tuo bel libricino "Viaggio nella civiltà contadina: la cucina" scritto insieme a Enzo Prudenzi e recentemente presentato a Castel Viscardo. Insomma, anche da questa angolatura c'è di che ragionare sullo stato delle cose passate e presenti per guardare costruttivamente al futuro.

Tuo Franco

Caro Franco,

la bella immagine di Orvieto come nave senza mare ispirò anche il delicatissimo scrittore Tito Sensi. "Orvieto,  nave, città del silenzio" è intitolata una sua prosa lirica ispirata dall'acrocoro orvietano quando sembra galleggiare sulla nebbia. Ma è una nave ferma, che non va da nessuna parte. Equipaggio e passeggeri non hanno una meta. È proprio così, oppure non è la spossatezza del navigante senza meta che caratterizza gli Orvietani, ma piuttosto la sindrome della piccola isola (TIS = tiny island syndrome)? La TIS consisterebbe in una nevrosi diffusa che provoca una follia latente, e qualche volta porta al suicido: un salto dalla ripa, analogo a un tuffo per nuotare verso un continente dal quale nessuno ritorna.

Ma vorrei rispolverare le considerazioni, altrove da me già citate, di un anonimo che, nel 1854, stilò un breve saggio intititolato "Descrizione istorica d'Orvieto, città rinomata non solo pel suo magnifico antico duomo, e pel suo maraviglioso pozzo detto di San Patrizio, ma anche per aver servito di rifugio e di difesa per più secoli a più e diversi pontefici, e per i suoi rapporti con le antiche ed etrusche città."

Ne riporto qualche stralcio.

"Letta la Storia Orvietana, deve fare gran maraviglia come dopo d'esser stata questa città sin da tempo antico non solo frequen­tata, ma anche di continuo abitata non solamente da persone di gran riguardo, come da Papi, da Cardinali e da Principi colle loro Corti, bensì ancora da molte persone letterate; dopo d'aver avuto inoltre per molto tempo una specie d'Università di studj, ed abbia avuto eziandio in diversi tempi delle persone distinte in diversi generi, poco conto s'abbia fatto di questi, cosicché per la più parte sono ignorati, e la popolazione, fuorché d'avere ritenuta la pur troppo comune cortigianesca finzione, sia del resto sempre rimasta in generale per verità con poche eccezioni, piuttosto torpida e rozza od incivile. È da credersi che le sopraddette circostanze rimanessero quasi estranee alli Orvieta­ni Sembra che una certa naturale e generale apatia, non si saprebbe se cagionata dall'aria piuttosto umida o da una ereditaria dispo­sizione dei loro primitivi progenitori Beozj, ne abbia sempre tenuta la maggior parte lontana dal molto comunicare, conversare e praticare co' forestieri singolarmente culti, istruiti e civi­li, e che, fuorché pochi e per poco, abbia tenuto tutti li altri lontani dal portarsi a viaggiare in esteri più attivi, più culti, più istruiti e più civilizzati paesi. Per lo che non si abbia potuto acquistare quelle tante idee, cognizioni e desiderj di tante utili e piacevoli cose, che suscitano dei bisogni fattizj; per la soddisfazione dei quali fa d'uopo, alle persone ricche o comode, di provvedere d'opportuni mezzi all'avanzamento e d'im­piegare, far lavorare e ben pagare tanto i contadini che li artigiani e tutti i cittadini, ed a questi fa d'uopo d'attivarsi, di travagliare, e d'industriarsi, tanto mentalmente, che mate­rialmente, per guadagnare in modo da potere anch'essi soddisfare i nuovi bisogni. Per la mancanza d'aver a soddisfare siffatti bisogni fattizj cadendo i nobili e ricchi nella sordida avarizia nemica dichiarata del bene altrui e della patria, e non dando perciò anima ed eccitamento alli studj delle persone culte ed alle opere dei contadini, delli artigiani, delli artefici e delli artisti, non vengono a questi tante voglie, e così mancano an­ch'essi di quei tanti bisogni fattizj capaci di far studiare, di fare travagliare e di far divenire industriosi. Onde la mancanza di tanti bisogni fattizj e un territorio daltronde naturalmente fertile, che somministra più che il necessario con poca fatica, frattanto che dal suo fruttato i contadini in specie, non stimo­lati al lavoro dall'indicati bisogni fattizj e poco eccitàtivi dalli scarsi bisogni naturali, generano in essi, più forse che in altri, quell'inerzia , quella trascu­ranza per le proprie faccende, quella spensieratezza, quella infingardaggine, quella disoccupazione e quell'oziosità che si vedono dominare nei medesimi, non meno che in tutti li altri; e che portano i più, per la poca o nessuna procurata risorgenza dei guadagni, all'avarizia stessa, e per togliersi la noja portano al chiaccherio, al vano proggettismo ed all'abuso del vino e del giuoco, che gettano nella povertà li artigiani, massimamente quando alla poca voglia di lavorare sopravviene la mancanza delle forze. Tali vizj danno pur origine alla smania d'occuparsi de' fatti altrui più che de' propri, ed a passare il tempo a spiare, a mormorare e far chiassi. Mantenendo frattanto nell'ignoranza, nell' imperizia delle proprie professioni, arti e mestieri, ne avviene che le persone di qualità e di una certa cultura sono per lo più assai limitate nei loro respettivi impieghi, zotiche, incivili; li artigiani oltre alla rozzezza loro ed incuranza, sono così materiali, disattenti, trascuranti ed inesatti nei loro lavori, che non escono dalle loro mani se non opere rozze od imperfette."

Ma l'anonimo parla degli Orvietani di un secolo e mezzo fa. Oggi si fanno fatti e non chiacchiere. E, soprattutto, non ci occupiamo più dei fatti degli altri.

Allora procediamo alla ricerca della classe dirigente, con la speranza di non fare la fine dell'uomo di Popper, mandato in una stanza buia a cercare un cappello nero che forse non c'è.

Tuo Pier


A destra e a manca  è la rubrica di Orvietosì  oggi all'undicesima puntata. E' animata da Pier Luigi Leoni e Franco Raimondo Barbabella, la destra e la sinistra delle "cose", fatti orvietani o no visti da punti di vista diversi, certamente autorevoli.
I due sono amici fraterni da decenni e quindi le idee potranno risultare discordi ma il tono è quello amicale e piacevole che usano persone che vivono la "vita" con reciproco affetto.
Vorremmo attrarre i lettori nel ragionamento aperto da Leoni e Barbabella, non con i commenti, che in questa rubrica sono disattivi, ma con contributi firmati e spediti per e-mail a
dantefreddi@orvietosi.it , specificando nell'oggetto la rubrica "A destra e a manca".
La rubrica esce ogni lunedì.

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Pubblicato il: 28/12/2009

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