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Spunti per discutere di lavoro

Il lavoro nell'Orvietano.Un ragionamento intorno ai dati offerti dal bollettino sul lavoro pubblicato dal Comune di Orvieto. Tanti operai agricoli, poche donne, rari impiegati. La speranza di costruirsi un lavoro autonomo

Cronaca

di Dante Freddi

Per dire di lavoro nell'Orvietano è necessario utilizzare i dati del 2001, gli ultimi offerti dal bollettino dell'Osservatorio economico edito dal Comune di Orvieto.

Entriamo nel ragionamento.

Nel 2001 sono stati avviati al lavoro nell'Orvietano in 4.714, di cui 1.506 femmine e 3.973 maschi.

Prima considerazione, scontata ma non troppo: per una donna trovare lavoro è almeno il doppio più difficile che per un uomo.

Dei 4.714, 335 sono stati assunti come apprendisti, 102 con contratto di formazione, 3.103 con contratti diversi a tempo determinato, 1.174 con contratti diversi a tempo indeterminato.

Dei 4.714, 2.146 sono stati assunti nell'agricoltura, 569 nell'industria, 1.999 in altre attività.

Dei 4.714, 335 sono apprendisti, 2.645 operai generici, 1.396 operai qualificati, 338 impiegati.

Le cessazioni nel 2001 sono state 1.697, con un discreto saldo attivo, superiore ai dati provinciali e regionali.

Dai numeri si desume che il 75% degli avviati ha un lavoro a tempo determinato, soltanto il 25% ha un lavoro, diciamo, "sicuro".

Quasi la metà degli occupati è impegnato nell'agricoltura, con ovvi legami alla stagionalità, che non significa necessariamente precarietà.

L'85% è occupato come operaio, ed ecco perché sono poche le donne che hanno trovato lavoro.

Gli avviamenti hanno fatto registrare un saldo attivo consistente e le cessazioni sono state inferiori al 2000 e comunque percentualmente minori rispetto alle altre zone dell'Umbria.

I numeri dipingono un quadro in cui l'agricoltura è ancora la fonte maggiore a cui attingere lavoro e un posto con la qualifica da impiegato, magari a tempo indeterminato, è una vincita al Lotto.

Rimane la possibilità di costruirsi un lavoro in proprio, con una partita iva, professionale o commerciale, nella produzione o nei servizi. Per provarsi nel mercato, alla ricerca di una propria dimensione professionale, è necessaria apertura e non nutrire eccessivo timore di possibili errori. È una via difficile, ma è una via alla ricerca della libertà e vale tentare.

La libertà dal bisogno, e quindi il lavoro, è un contenuto imprescindibile della libertà.

L'articolazione del rapporto di lavoro offre ulteriori contenuti a questa libertà. Il lavoro sicuro rende sicuri, mentre la subalternità all'altro, la discrezionalità dell'altro, la capacità dell'altro di decidere del lavoro altrui costituiscono un limite pesante della libertà.

Ma così va il mondo, e forse non potrebbe essere altrimenti se ci atteniamo alle esperienze delle dinamiche economiche che la storia ci ha consegnato.

È giusto che un imprenditore lavori con personale che ritiene adeguato alle proprie esigenze operative, secondo regole ben definite e condivise.

È giusto che un lavoratore risponda all'impegno intrapreso nei confronti del datore di lavoro, secondo regole ben definite e condivise.

Ma è anche giusto che questo lavoratore sappia che alla sua "fedeltà" agli impegni assunti corrisponde la certezza dell'impiego, secondo regole ben definite e condivise.

Dagli eccessi di un garantismo sbagliato, che tutelava soltanto il lavoratore, sempre e comunque, perché considerato il soggetto debole, siamo passati all'opposto, al lavoro sempre a tempo indeterminato, ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa che imperano(2.400.000 in Italia, l'11% degli occupati), ad ulteriori e fantasiose forme di "flessibilità", parola d'ordine ormai assunta a dogma.

La fase che è venuta meno è quella della definizione di "regole ben definite e condivise", che permettano di immaginare un futuro e costruirlo, sapendo che l'esito dipende soltanto da se stessi.

Pubblicato il: 05/05/2003

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