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È Pasqua anche in Iraq?

È tempo di Pasqua per gli occidentali. Lo sarà anche per gli iracheni? Per le donne bistrattate da anni di maschilismo e di dittatura? Per i bambini morti a causa delle bombe figlie delle tante guerre?

Società

di Alessandro Quami


È tempo di Pasqua per gli occidentali. Lo sarà anche per gli iracheni? Per le donne bistrattate da anni di maschilismo e di dittatura? Per i bambini morti a causa delle bombe figlie delle tante guerre (sante e non) e, in misura anche più ampia, dell'embargo che, senza voler entrare nel merito delle sanzioni, ha danneggiato la popolazione e non il satrapo Saddam Hussein e i suoi gerarchi? E anche ora che il regime è caduto, l'emergenza fame e malattie è ancora là a ricordare che una guerra vinta non è tale senza una pace compensatrice dei torti subiti dalle maglie più deboli di una società che ha conosciuto, millenni fa, una civiltà anticipatrice di quella cultura (greco-romana) che oggi anima l'occidente.
Questo discorso non dev'essere fatto - retoricamente e ipocritamente - solo in occasione della Pasqua di nostro Signore, perché non solo nelle ricorrenze si soffre. Ma è proprio in momenti così significativi che viene in mente il fine del sacrificio di Cristo: aprirci le porte del Paradiso, cioè salvarci dalle pene (eterne) del male. Lui che, uno e trino e fattosi uomo, ha voluto dare alle sue creature la libertà e l'opportunità di scegliere la strada giusta per rispettare le regole di Dio (che in arabo si dice Allah). Lui che - dall'alto della sua misericordia infinita - è sceso al nostro livello e, sbeffeggiato e ferito nell'orgoglio e nel fisico, ci ha dimostrato cosa significhi amare ed essere giusti. Tutti, infatti, cristiani e non, sono coinvolti dal suo atto; tutti, senza distinzioni e nel rispetto del proprio essere, sono stati messi sullo stesso piano. Un piano che rende dignità alle sue creature (secoli dopo sono arrivati anche gli uomini a capire questo fondamentale insegnamento, formalizzando il rispetto per i diritti umani: Dichiarazione di indipendenza e di libertà degli Stati Uniti d'America, Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino della rivoluzione francese, Dichiarazione universale dei diritti umani dell'Onu).
Dignità reclamata dai visi sofferenti degli iracheni e che solo la carità, la speranza e la fede possono assicurare. Ma questi tre sostantivi sono le tre virtù teologali del cristianesimo. Fede, affinché ci sia fiducia nella vittoria del bene (diplomazia) sul male (guerra, anche se a volte gli uomini comprendono solo la legge delle armi e non quella dell'amore). Speranza, perché i potenti del mondo - e qui potrebbe aprirsi un capitolo molto lungo sulle responsabilità dei Paesi occidentali e sulle loro istituzioni: Onu, Nato, Ue - sappiano seguire la strada disegnata da chi si è immolato per la salvezza umana; mettendo in disparte egoismi e sete di potere. Carità, perché solo l'amore nel prossimo (tipico, anche se non esclusivo, precetto cristiano) può dissuaderci dal percorrere una via più diretta ma che non guarderebbe in faccia nessuno.
Cosa, se non l'amore per gli altri, potrebbe spingere i governi dei Paesi più ricchi a impiegare spassionatamente risorse in favore delle popolazioni bisognose del terzo mondo (molto più grande del primo e del secondo mondo!)? Cosa, se non la speranza in un futuro più giusto, può far scendere in piazza milioni di uomini di tutto il pianeta? Cosa, se non la fiducia nell'umanità tutta, può spronare le istituzioni a lavorare per un mondo più sicuro e più giusto?
Ecco, Gesù è morto e soprattutto risorto per rendere giustizia a tutti. Anche agli iracheni. Che la Pasqua di Resurrezione non sia confinata all'occidente è auspicio universale. Sta all'uomo e alla sua capacità diplomatica trasformare una speranza in realtà.

Pubblicato il: 20/04/2003

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