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Si uccise cinque anni fa.
Ora alla sbarra due uomini accusati di usura

Il suicida segnalò in un biglietto una sfilza di presunti "cravattari". Il quadro che emerge dalla prima udienza è piuttosto controverso...

ORVIETO - "Chiedo perdono a tutti. Sono assillato dagli strozzini". E giù una sfilza di nomi e cognomi dei presunti "cravattari". Scritto questo biglietto, col quale chiedeva perdono alla moglie e alla figlia, Giancarlo Giannini, dipendente in pensione di un'azienda tessile del Ternano, si suicidò sparandosi un colpo di fucile, nella propria abitazione alle porte della frazione di Morruzze, nel Comune di Baschi, la mattina del 24 maggio di cinque anni fa.

Ora per quel suicidio sono alla sbarra con l'accusa di usura, un compaesano di Giannini - G.D.N. le iniziali - e A.L. di Collazzone, dipendente di un'azienda di serramenti del Tuderte.  Il primo (che, a differenza del secondo al quale hanno, invece, portato le indagini, è incluso nella lista dei nomi lasciati dal suicida), per aver dato a Giannini 28 milioni di lire, dietro la garanzia di 80 e il secondo, per aver prestato 5 milioni, con la doppia garanzia di un assegno e una cambiale, titoli entrambi da 5 milioni di vecchie lire.

Ieri mattina in aula la prima udienza del processo è servita all'escussione della maggior parte dei teste di accusa e difesa. A sfilare di fronte al collegio penale del tribunale di Orvieto sono stati, per il pm, Flaminio Monteleoni, due militari dell'Arma che condussero all'epoca le indagini, la moglie e la nipote dell'uomo scomparso. Mentre la difesa, che respinge ogni addebito per i due imputati, ha chiamato a testimoniare un imprenditore edile di Todi amico dell'imputato di Collazzone, suo coetaneo e dipendente della ditta che in precedenza era appartenuta alla sua famiglia, un operaio della ditta stessa e la moglie dello stesso imputato.

Il quadro che ne è emerso è piuttosto controverso. Con l'accusa che punta a dimostrare le eccessive garanzie offerte per i prestiti e la difesa che vuol dimostrare l'assoluta liceità del giro di denaro. La famiglia di Giannini, originaria della zona, aveva avuto in passato consistenti possedimenti e terre nella frazione di Baschi. Il patrimonio, poi, si assottigliò, spartito tra tre fratelli. Giannini intraprese l'attività di rappresentante di commercio per una ditta che poi, nei primi anni Settanta, fallì. E fu allora che entrò come operaio nello stabilimento tessile vicino Terni, dove restò fino alla pensione. Sul tenore di vita dell'uomo, non c'è, come è ovvio, piena sintonia tra accusa e difesa. Pare, stando a quanto affermato dalla difesa in aula, circostanza sconosciuta ai familiari, che, dopo il pensionamento, Giannini avesse messo in piedi un piccolo giro di affari acquistando le stoffe difettate dell'azienda per cui aveva lavorato, riuscendo poi a rivenderle. A questo sarebbero serviti i 28 milioni chiesti al compaesano che, in un'intercettazione citata in aula, a due settimane dal suicidio, avrebbe commentato "si è sparato, mi dice male, non va in porto l'affare che avevo con lui, rischio di rimetterci 28 milioni". Gli altri 5 milioni chiesti, invece, al dipendente della ditta di serramenti, conosciuto nella circostanza di alcuni lavori fatti fare a casa, dovevano servire a pagare una quota per una postazione di caccia al cinghiale in Toscana.

Restano da sentire altri testi dell'accusa, tra cui due militari dell'Arma e un consulente. Saranno sentiti nella prossima udienza del 22 giugno, data fissata anche per la discussione.

Pubblicato il: 21/04/2006

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