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Largo ai giovani. Per la città del futuro c'è bisogno di pilotare un cambiamento

Il vescovo, monsignor Giovanni Scanavino, su presente e futuro della Rupe. La città ha bisogno di "dialogo" . Bisogna "Trovare la volontà di mettersi attorno a un tavolo e cominciare a parlare di cose serie"...

foto di copertina

di Stefania Tomba

ORVIETO - "Orvieto, svegliati". Il monito del vescovo, monsignor Giovanni Scanavino, lanciato orami più di un paio di mesi fa, dalle colonne del bimestrale "Lettera Orvietana" e riproposto in un ampio dibattito su "Il giornale dell'Umbria" ha suscitato forti reazioni sulla Rupe.

Eccellenza, a distanza di tempo Orvieto dorme ancora? E soprattutto, che effetto le hanno fatto le reazioni alle sue parole?

"Questo richiamo è stato accolto un po' da tutti. Però è difficile verificare la sincerità dell'accoglienza e quindi anche la sincerità di un effettivo impegno della città, di quanto tutti vogliano darsi veramente da fare per risolvere alcuni problemi che ci sono. Se Orvieto dorma ancora, credo che, per adesso, questo sia difficile da stabilire. Ma per quanto riguarda le reazioni, mi piace soprattutto che ci si trovi abbastanza d'accordo sul fatto che bisogna, in primo luogo, privilegiare il mondo dei giovani e per loro affrontare certi problemi che riguardano la città. Ho visto con piacere, ad esempio, che qualcosa si sta muovendo tra i giovani artigiani: vediamo in cosa consistono le loro proposte. Io, per conto mio, ribadisco che tutto ciò che si fa per i giovani mi trova assolutamente favorevole e al loro fianco perché c'è indubbiamente una situazione che va sbloccata. Nel senso che ad Orvieto le prospettive per i giovani sono quasi nulle, sono costretti a vivere altrove, fuori dalla città e la Rupe continua a svuotarsi. In questi termini non c'è neanche possibilità di un dialogo.  Capisco che è difficile andare contro una tendenza che si è creata nel tempo, non so neanche di chi potrebbe essere l'iniziativa o la colpa. Ma sta di fatto che è così. Ho notato anche come ci sia stato qualcuno che ha sostenuto una posizione diversa dicendo che, invece, la città è viva, che ha una voce giovane. Certamente, non ho ancora una conoscenza profonda di tutte le situazioni, le iniziative che ci sono. E se fosse così sarei contento, però vorrei certamente che ci fosse più dinamismo in questo senso".

Secondo Lei di cosa ha bisogno in primo luogo la città?

"Del dialogo, innanzitutto. In questi giorni, tanto per fare un esempio, la città discute degli scontri interni alla Fondazione. Senza dover entrare nel merito delle questioni, mi sento di sottolineare, in maniera emblematica, come di giovani, all'interno di questa struttura, ad esempio, io ne veda ben pochi. Non voglio dire che le figure che ci sono non siano valide, ma semplicemente che, a mio avviso, c'è bisogno di pilotare un cambiamento. Che non vuol dire "rovesciamo le poltrone, via tutti". Perchè se anche arrivassero tutti i giovani adesso dentro le istituzioni, non saprebbero cosa fare. Le nuove generazioni, invece, vanno aiutate ad entrare gradualmente all'interno delle strutture che poi segnano il potere e la gestione del potere. Dove per potere non si intende qualcosa di negativo in sé, non è questa la sua accezione iniziale. Acquista un senso negativo quando diventa il potere di pochi. Che gestiscono tutto loro e gli altri stanno a guardare o non hanno neanche la possibilità di dare un contributo. In questo senso c'è bisogno di una prospettiva diversa: non è facile anzi è difficilissimo ma intanto potremmo cominciare a cambiare la tendenza. Ad aprire le finestre, le strade, le porte perché i giovani possano avere più possibilità, altrimenti ci troveremmo sempre in questo tipo di difficoltà. Che sono sintomatiche dell'inizio di un malessere che esiste e che è sicuramente un conflitto di potere, perché chi sta dentro accusa quelli che vorrebbero entrare, come se fossero loro quelli che vogliono prendere le poltrone al posto di quelli che già ci sono. Però forse un dialogo maggiore sui problemi e sulla gestione, su come si portano avanti le cose sarebbe auspicabile. Invece qui ogni volta che si affronta un problema, finisce che si litiga. E allora non so davvero se questo è un sistema che può essere considerato valido"

Che tipo di soluzione suggerirebbe?

"Trovare la volontà di mettersi attorno a un tavolo e cominciare a parlare di cose serie. E non soltanto per finta. C'è da affrontare il grande tema della ricostruzione della città, della rifunzionalizzazione delle caserme, ad esempio. Anche in questo caso ci vuole partecipazione e, in primo luogo, la promozione della partecipazione. Non basta dire ci vuole più dialogo bisogna anche favorire il dialogo, costruirlo. È per questo che occorrerebbe che ognuno purifichi un po' di più le sue intenzioni, altrimenti andremo avanti sempre per "blocchi". Come è accaduto per anni con la precedente gestione dell'Opera del Duomo che era intesa come il "blocco" da contrapporre al Comune. Non è questo l'intento quando si gestisce una città. L'intento è farlo in sintonia, ragionando insieme.  Capisco anch'io che è difficile non litigare quando si vuole cambiare una tendenza. Ognuno ha la sua storia e se Orvieto sono 50 anni che è condotta politicamente sempre da un certo gruppo non si può pretendere che da un giorno all'altro questo gruppo ceda il passo per una gestione meno monolitica del potere. Questo è naturale. Però, a un certo punto, bisogna raccogliere il grido di allarme. Della serie: "Vogliamo che Orvieto diventi quello che quasi è, cioè un museo?" Tutti a dire no, per carità! Però, poi, di fatto cosa facciamo per contrastare questa tendenza? Ci saranno, pure, delle iniziative che possiamo prendere a livello cittadino perché ci sia più partecipazione, più condivisione e non soltanto mettersi lì a litigare. Basta un po' di buona volontà. Capisco che non è facile, perché poi ognuno, a seconda delle correnti politiche, delle filosofia che professa ha le sue teorie e le sue strategie da perseguire. Ma se già riuscissimo a trovare un punto di incontro dicendo: "non si può prescindere dalla ricostruzione di Orvieto senza i giovani". Già questo, ad esempio, rappresenterebbe un ottimo punto di partenza per iniziare a progettare in ogni settore lavorativo e ambito della vita quotidiana. Nessuno ha la bacchetta magica, ma se neanche ne parliamo se non siamo d'accordo neanche su queste linee fondamentali, evidentemente continueremo a litigare, a borbottare e la gente continuerà ad andare via, a lavorare altrove per ricordarsi ogni tanto che esiste una città che si chiama Orvieto, dove si è nati."   

Quale ruolo può svolgere la fede, in questo rinnovamento?

"Orvieto è distesa su un grosso blocco di tufo, oltre al tufo c'è una crosta, non so quanto pesante quanto consistente, ed è la crosta dell'immobilismo, del "si è fatto sempre nello stesso modo". E lo stesso discorso credo che valga per la fede. Una fede che è stata vissuta come una parte della vita e non come la vita.  E le conseguenze, poi, si vedono quando si affrontano i problemi.  Perché sembra quasi che discutere i problemi sia tutta un'altra cosa e che non sia possibile che la fede, invece, entri nella vita di tutti i giorni. Al contrario, la fede va gestita nel sociale, nel pubblico, va vissuta nella realtà, divenendo l'elemento che la fermenta. L'immagine del vangelo che è molto bella descrive la fede come una misura di lievito che si mette nella farina per fermentare la pasta. Ecco, se la fede è gestita a livello privatistico non mi sta bene, perché non diventa il lievito che fermenta positivamente le scelte le impostazioni dei problemi della città. E poi le conseguenze si vedono benissimo, a livello pratico, perché non c'è l'entusiasmo di portare avanti certe iniziative di carattere sociale: il rapporto con gli extracomunitari, con i poveri sbandati che dormono alla stazione, il problema della droga. Alla fine, insomma, rischiamo che la fede sia una cosa che si gestisce totalmente in privato e che non c'entra niente con tutti gli altri problemi. Invece no, la fede deve diventare veramente la possibilità di smuovere, di cambiare le cose. Questo non significa che dobbiamo essere tutti dello stesso "partito", però deve essere la fede la molla che ci porta ad incontrare le persone e a valorizzarle in tutto e per tutto. Ecco questo approccio alla fede dovrebbe essere più spontaneo. Proprio per questo, con la diocesi stiamo cercando di insistere su alcuni punti fondamentali, per tornare a gettare una base di vita cristiana che aiuti questa città. Giovanni Paolo II ha avuto questa grande idea di mettere l'accento per un anno intero sull'Eucarestia. Ora stiamo chiudendo l'anno di riflessione sul senso eucaristico, un significato che Bolsena e Orvieto, custodi del miracolo, hanno il compito di sostenere.  Dobbiamo continuare su questa linea cercando di far si che tutto quello che facciamo sia impregnato dello spirito della carità, che è il vero significato dell'eucarestia".

Lei ha paragonato Orvieto ad una nave cui serve un bel colpo di timone per tornare a veleggiare. Ma su quale rotta?

Una rotta più comune, quella da trovare insieme. Che non significa acquistare tutti lo stesso colore ma metterci tutta la buona volontà per affrontare insieme i nodi principali, in modo da avere anche la coscienza tranquilla di aver fatto tutto quello che dipende da noi. Probabilmente ci saranno anche cose che non dipenderanno dalla nostra volontà. La situazione economica che riguarda la nazione, ad esempio. È vero, ma questo non ci deve impedire di metterci insieme per cercare delle soluzioni".

Pubblicato il: 07/11/2005

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