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Intervista a Ettore Mo

Intervista a Ettore Mo - Orvieto Palazzo del Popolo
a cura di Simone Zazzera

In questo momento che consiglio darebbe a qualche giovane che volesse intraprendere la professione di inviato estero?

Questa sera hai davanti l'esempio di un Tiziano Terzani che ha cominciato in maniera strana. È andato a Singapore senza sapere bene cosa dovesse fare, proprio spinto da questo desiderio di fare l'inviato all'estero. Questa è stata appunto la mia storia, ma ci sono voluti tanti anni, tante fatiche. In qualche modo mi sono dovuto adattare a quella che era la domanda e la risposta. Questi giornali sono molto restii ad accettare ragazzi. Io onestamente non saprei cosa consigliarvi, perché mi pare sempre di dire cose abbastanza ovvie. La mia biografia non è di aiuto a nessuno di voi. Io sono entrato tardissimo nel giornalismo, a trent'anni. Sono entrato in maniera strana perché sono entrato da Londra, al Corriere della Sera che è una cosa buona, ma sempre come vice, vice del vice. Ho passato dieci anni di assoluto anonimato. Questa è la mia carriera. Cosa posso consigliare ai ragazzi? A Milano vengono a chiedermi "Ma allora cosa possiamo fare ci dai una mano?" Ma certo che vi do una mano, io credo nella gioventù che vuol fare giornalismo, ma il giornalismo come l'ho fatto io, come lo faceva Terzani: il giornalismo fatto con la suola delle scarpe. Quello è ancora il giornalismo. Voi giovani siete in qualche modo frenati dalla tecnologia. La tecnologia ti dà l'idea che schiacciando due bottoni hai tutto. No, tu devi andare sulla strada, anche in cronaca. Bisogna andare fuori a vedere se c'è stato un incidente e vederlo, odorarlo, sentire cosa dice una persona o un'altra. È la testimonianza diretta in assoluto la cosa più importante. Non si può aggirare la testimonianza diretta. Mai. Se voi vi illudete che i mezzi tecnologici sono tali che vi consentono di fotografare una realtà, piccola o grande, all'interno o all'estero, siete degli illusi. Bisogna andare sul posto, bisogna vivere delle situazioni, per poter raccontare, altrimenti non racconti un non racconti niete.

Oltre al libro che viene presentato questa sera cosa si sente di consigliare di leggere a chi volesse diventare inviato di guerra?

Ad un ragazzo che volesse fare l'inviato di guerra io consiglierei "Omaggio alla Catalogna" di George Orwell, che è la storia della guerra civile in Spagna. Per dirne uno, poi ce ne sono tanti altri. Nella sostanza poi per chi vuol fare un certo tipo di giornalismo deve poi lui organizzarsi e trovare lui le storie e i racconti che possono essergli utili, i libri che in qualche modo lo possono meglio indirizzare verso la sua carriera.

Il Senato ha approvato il decreto legge che delega al governo la revisione delle leggi penali militari di pace e di guerra. Se questa decreto non verrà modificato dalla Camera c'è il rischio per i giornalisti inviati di guerra di avere grosse limitazioni nello svolgimento del loro lavoro. Cosa ne pensa di questa ipotesi di revisione?

Io questa cosa non l'ho seguita e quindi non posso rispondere tecnicamente a questa domanda. Però quello che posso dire è che ad un certo punto noi ci dobbiamo sganciare da queste strutture che ci vincolano. Ora se tu non puoi fare altro è meglio che fai l'embedded, perché anche dentro questa corteccia, questa struttura dove sei incapsulato, tu hai sempre la possibilità di fare qualche cosa. Se non puoi fare altro fai pure l'embedded, poi troverai il tuo momento dove sganciarti. Uno lo trova il suo momento. Tutti noi che abbiamo l'ambizione di raccontare le cose, troviamo il modo di farlo.   

Pubblicato il: 10/12/2004

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