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Fate le vacanze, non fate la guerra

Operatori turistici allarmati dal possibile conflitto in Iraq. I più preoccupati sono i gestori degli stabilimenti balneari (la Fiba prevede una riduzione delle presenze del 20%). Ma anche a Orvieto c'è apprensione

Economia

Una stagione a rischio. Almeno così la pensano gli operatori turistici italiani. Commercianti e albergatori delle città d'arte (compresa naturalmente Orvieto), operatori delle località di montagna, gestori balneari. Tutti legati da un filo rosso che si chiama «paura della guerra». Il rischio è causato dai venti di guerra che incombono: «Diciamo no al conflitto. Ma se guerra deve essere, che sia subito e che sia rapida. I n caso contrario la nostra bilancia turistica subirebbe danni gravissimi. E poiché il turismo è il motore dell'economia italiana, l'intero Paese ne risentirebbe in modo traumatico».
Renato Papagni, presidente nazionale della Fiba Confesercenti, uno dei sindacati dei gestori di stabilimenti balneari, prevede un crollo di presenze pari al 20% e danni alla categoria per oltre 5 mila miliardi di lire. Analoghi i calcoli di Riccardo Scarselli, presidente della Fiba, l'associazione dei gestori legata alla Confcommercio. Tullio Galli, segretario dell'Assoturismo/Confesercenti, va addirittura oltre e parla di danni per il solo settore turistico quantificabili in 30/50 mila miliardi di lire.
Per confrontarsi sull'argomento e formulare previsioni per l'estate 2003 gli operatori si riuniranno a Balnearia, il 4° Salone delle attrezzature per il mare in programma a Carrara dal 7 al 9 febbraio. «In questi giorni stiamo comunque elaborando le prime stime - spiega Galli - come noto, il mondo del turismo ha cominciato da poco a riprendersi dalla crisi innescata dalla tragedia delle Twin Towers. Un nuovo trend negativo causato dalla guerra ci metterebbe in ginocchio con ricadute importanti sull'economia nazionale. Non dimentichiamo che in Italia ci sono 240 mila pubblici esercizi, 30 mila alberghi, 6500 stabilimenti balneari, migliaia di campeggi e un indotto vastissimo. Si tratta di milioni persone che si vedrebbero costrette a rivedere scelte e strategie. Difficile fare i conti, ma con la guerra si può immaginare un crollo tra il 20 e il 40% rispetto al fatturato 2002».
Gli stabilimenti balneari ne risentirebbero in modo particolare, ricorda Papagni, perché accolgono un turismo soprattutto europeo (60%) con una psicologia sensibile: «Persone - aggiunge - che vogliono vacanze tranquille, senza complicazioni emotive. Altrimenti stanno a casa. Figurarsi in caso di conflitto armato. Una prospettiva destinata a trattenere anche molti turisti italiani. Se nel 2002 il maltempo ci è costato il 10% di giro d'affari, una guerra ci costerebbe il doppio, con danni oltre i 5 mila miliardi. A meno che la guerra non finisca entro maggio. Allora la gente andrebbe in ferie senza più paura del terrorismo. Così potremmo avere un buon secondo semestre».
Secondo Scarselli, tra attentato di New York e maltempo gli stabilimenti balneari ci hanno rimesso quasi la metà del fatturato. «Naturale che i venti di guerra sugli ombrelloni preoccupino ulteriormente - sostiene -. Al sud si prevedono anche forti riflessi negativi sull'occupazione».
Galli resta comunque il più pessimista: «Anche una guerra a febbraio e di breve durata sarebbe comunque disastrosa per il turismo - dice - non fosse che per questo motivo, io resto decisamente contrario. L'intera economia italiana rischia di andare a rotoli».
Naturalmente se i gestori degli stabilimenti balneari sono contrari alla guerra, anche chi non ha da offrire spiaggia e mare (operatori turistici della montagna, di città d'arte) non è più ottimista. È il caso dei commercianti di Orvieto che vedono nella guerra e nell'incertezza derivante da essa, un freno alle loro vendite ad ai loro guadagni. Naturalmente un pensiero di questo tipo è condivisibile. E, se il discorso sull'entrare o no in guerra è complesso e non può essere liquidato con luoghi comuni o frasi demagogiche che provengono da certi settori della vita politica, se ci mettessimo nei panni dei commercianti non potremmo non dar loro ragione.

Pubblicato il: 28/01/2003

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