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IL PANE DEI FIORDALISI

Il secondo romanzo di Guglielmo Portarena raccontato da un lettore

foto di copertina

di Marco Sciarra

Il nuovo romanzo di Guglielmo Portarena, che già ci aveva strabiliato con l'opera prima (in realtà quasi una sceneggiatura)
«La lepre col cilindro», è intenso e vero come una tela dei Macchiaioli.
L'inizio, quasi enigmatico, sospeso a mezz'aria, lascia subito il passo a una narrazione godibilissima, fatta di tante pennellate
di colore e calore, crude senza mai scadere nel macabro, struggenti senza diventare stucchevoli, intense di una semplicità tutt'altro che banale.
Il piano narrativo si svolge su tre livelli, un po' alla maniera del Pendolo di Foucault, senza però il manierismo saccente di
Eco: il presente dell'aia, coi bambini curiosi in cui il lettore si identifica pian piano che avanza nella lettura; il passato del
racconto di Pietro, detto Pietricca, condotto attraverso mirabili flaskhback, e l'eternità immutabile delle massime in rima,
che, prima come cappello, poi come parte integrante del racconto, scandiscono la narrazione dandone la cifra.
È sicuramente un romanzo facile da leggere ma difficilissimo da raccontare a chi non l'ha letto, soprattutto per il mirabile
intreccio tra io narrante e io narrato, con il racconto del protagonista riportato in terza persona, da un occhio che sa scrutare l'animo, senza prenderne mai troppo le parti, di tutti quelli che appaiono sulla scena. Una scena popolata da una miriade di personaggi ‐di cui nessuno casuale o di tappezzeria‐ e che ruota attorno ad una vicenda reale, quella dell'uccisione del conte che, forse per una scaramanzia tutta orvietana, non è mai chiamato per nome in tutto il libro. Un omaggio che l'autore fa alla sua Sugano, ad Orvieto e alla sua campagna, descritta, negli scorci e nelle attività, con la maestria e la competenza di chi pare aver vissuto quell'Ottocento conclusosi, da qualche parte, con più di mezzo secolo di ritardo.
È la storia di un pover'uomo, rude ma non privo di sensibilità, che per unica dote ha la sua risolutezza, qualità che lo porta a
vivere una serie di fughe che si interrompono e riprendono, e una serie di incontri e di abbandoni, dai briganti a Rosetta, alla
ricerca di un riscatto dalla propria posizione, appena un gradino sopra gli ultimi; alla ricerca di un risarcimento dalla vita e dal mondo, ma soprattutto alla ricerca del rispetto degli altri, che guadagnerà per poi riperderlo. O forse no
A far da cornice al riscatto e al rispetto ci sono amore, passione, fiducia, rabbia, adulterio, speranza, perdono raccontati con la naturalezza di chi, con una saggezza popolare mai ostentata ma schiettissima, sa che in fondo il bene e il male non sono altro che aspetti naturali della vita di ognuno.
Ciascuno dei diciotto flashback di Pietricca, come puntate di un Decamerone ruspante ma raffinato, è una tessera di un
puzzle che verso metà romanzo diventa sempre più chiaro, per dar vita ad una tessitura in cui ogni cosa trova il suo posto,
incluso il tradimento e le stornellate, a volte leggere, a volte amare, dal forte sapore dell'ottava rima dei nostri nonni.
Succede un po' come davanti a quelle stampe in stereoscopia, fatte di tanti puntini apparentemente casuali, che danno vita,
appena vi si concentra lo sguardo, ad una rappresentazione tridimensionale ricca di particolari e di spunti di riflessione,
anche profonda.
Il dialetto la fa da padrone, con i coloriti intercalari che non trascurano né le parti anatomiche né i santi, dando a tutto il
lavoro il sapore di un affresco neorealista, tanto da far venire voglia di vedere questo romanzo trasposto, senza toppa fatica,
in una intensa pellicola.
Un cifra stilistica raffinata, quasi una riproposizione contemporanea del sapore dei vecchi cantastorie, senza inutili orpelli ma ricca di aspetti profondi, fatti di una introspezione contadina pre‐Freud, a volte sbrigativa, forse un po' semplice, ma mai scontata o futile.
Una vita, quella del protagonista, che sarebbe sbagliato non raccontare, non fosse altro per quell'essere al limite, in quella
terra di nessuno, per aver annaspato per una vita nel limbo, tutt'altro che grigio, tra i miserabili e i rispettabili, siano essi per
paura o per merito.
«Il pane dei fiordalisi» è un'opera che dà più di un brivido, ma tutt'altro che di terrore. Come quando si comprende il perché
del titolo, o ancora, quando ci si toglie il piacevole sfizio di rileggere il prologo dopo aver finito il romanzo.
Bravissimo Guglielmo, anche se ora, dopo averci viziato con questi due primi romanzi, sarà ben dura tenere il passo.
Pietricca direbbe: «Portare', ha' fatto la frusta pe' 'l tu' culo»!

Guglielmo Portarena
Il pane dei fiordalisi
Intermedia edizioni
dicembre 2011

Pubblicato il: 27/02/2012

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