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NOTIZIE CORSIVI

PING/PONG. La legge regionale per l'Unione di Comuni ora c'è. Qui da noi che si fa?

di Pier Luigi Leoni e Franco Raimondo Barbabella
Riforma endoregionale dell'Umbria. Cambia l'organizzazione delle amministrazioni. Le Unioni dei Comuni. "Più chiara, con la nuova bozza, anche l'identità delle Unioni di comuni, obbligatorie per gli enti sotto i 40 mila abitanti e facoltative per quelli sopra i 40 mila. Alla loro individuazione provvederà la giunta regionale con un piano di riorganizzazione che dovrà essere messo nero su bianco entro 4 mesi dall'entrata in vigore della riforma...

di Pier Luigi Leoni e Franco Raimondo Barbabella

Riforma endoregionale dell'Umbria. Cambia l'organizzazione delle amministrazioni. Le Unioni dei Comuni. "Più chiara, con la nuova bozza, anche l'identità delle Unioni di comuni, obbligatorie per gli enti sotto i 40 mila abitanti e facoltative per quelli sopra i 40 mila e che andranno a svolgere molte delle funzioni ora delegate agli Ati (che saranno soppressi). Alla loro individuazione provvederà la giunta regionale con un piano di riorganizzazione che dovrà essere messo nero su bianco entro 4 mesi dall'entrata in vigore della riforma...Ogni Unione avrà un'assemblea formata da sindaci e guidata da un presidente, ma in ossequio all'austerity nessuno beccherà un centesimo. In più, sarà fatto divieto di assumere personale a tempo indeterminato." (Da una notizia di Umbria24)

 

Raccolgo la palla pesante (anche di neve) che mi ha lanciato il Direttore e vedo se e come riesco a passarla a Pier Luigi solleticandone spirito combattivo e competenze. Parto un po' da lontano, ma poi arrivo al punto. Nei giorni scorsi mi ha colpito quanto ha detto un giovane musicista emigrato in un paese europeo alla giornalista del tg2 che gli chiedeva perché secondo lui i giovani laureati italiani se ne vanno all'estero e che cosa si può fare per impedirlo, ovviamente nell'assunto che questo sia un problema per loro e un danno per l'Italia. Alla prima domanda quel giovane ha risposto pressappoco così: "Perché in Italia non si valuta il merito", e alla seconda: "Basterebbe che si avesse più coraggio e che ciascuno facesse bene il proprio mestiere". Secondo me, sintesi stupenda.

Venerdi scorso sul  "Giornale dell'Umbria"  il mio amico Giovanni Codovini, citando dati illuminanti di una ricerca dell'AUR (Agenzia Umbria Ricerche), è tornato sul tema del futuro dell'Umbria afferrando, come è solito fare, il toro per le corna: " emerge l'Umbria poco aperta e colloquiale con i territori contigui e con le macro-regioni che si vanno formando in Italia e in Europa. Questa la palla al piede dell'Umbria: il livello di integrazione interregionale e territoriale pesa non poco nello sviluppo dell'Umbria e, parallelamente, fa abbassare il grado di attrattività del nostro territorio in termini di investimenti e di livelli di manodopera qualificata".

Che relazione c'è tra le due citazioni e tra esse e il tema che il nostro Direttore ci propone di discutere? Direi così: quel giovane indica in modo emblematico la necessità di una rivoluzione culturale generale per far scattare gli spazi di qualità che servono al fine di trattenere il patrimonio di competenze che qui si è formato e così contribuire a rilanciare il paese, ciò che di fatto vale tuttavia in ogni realtà; Codovini ripropone l'idea dell'Umbria come regione aperta che sceglie di promuovere un più alto livello di integrazione interregionale e territoriale, senza di che quegli spazi almeno dalle nostre parti non si creano; la riforma endoregionale dell'Umbria è uno dei passaggi indispensabili perché questa possibilità assuma connotati di sano realismo; Orvieto ne ha bisogno come gli altri territori, o forse di più, essendo zona cerniera di realtà da sempre fragili e marginali, perciò a rischio ricorrente di emarginazione. Il futuro si costruisce con questa visione e con questi legami.

E' dunque ad una profonda riforma generale endoregionale che bisogna oggi riferirsi anche per ragionare delle prospettive di modernizzazione e di crescita del nostro territorio. Non so quanto è noto, ma un primo passo in questa direzione è stato compiuto. Con deliberazione n. 111 del 19 dicembre 2011 il Consiglio Regionale ha approvato la legge "Riforma del sistema amministrativo regionale e delle autonomie locali e istituzione dell' Agenzia forestale regionale. Conseguenti modifiche normative". Vedremo tra poco che non si tratta di una rivoluzione, ma solo di un primo passo per rompere le anchilosi di un sistema istituzionale che non risponde più alle esigenze né delle singole comunità né di quell'insieme di esse che si chiama regione.

E tuttavia il passo compiuto è senz'altro significativo. Vengono infatti istituite le Unioni Speciali di Comuni, cui vengono delegate competenze piuttosto vaste anche se non certamente decisive, ad esempio in materia di politiche sociali, turismo, boschi e terreni sottoposti a vincolo per scopi idrogeologici, agricoltura, bonifica nei territori ove non operano i consorzi di bonifica. Contemporaneamente vengono abolite le Comunità montane ed è istituita l'Agenzia Forestale Regionale, vengono riordinati i Consorzi di bonifica e soppressi gli ATI.

Ho detto che non si tratta di una rivoluzione. Non lo è, non solo perché non c'è ancora una visione chiara di ciò che devono essere ad esempio il sistema sanitario regionale e il sistema scolastico e formativo (aspetti evidentemente essenziali di un disegno regionale complessivo di riforma), ma soprattutto perché, da una parte non emerge se non timidamente (c'è solo una dichiarazione di principio nell'introduzione al nuovo DAP, il documento di programmazione regionale) una chiara indicazione dei terreni di collaborazione programmata con le regioni contermini, e dall'altra non si percepisce una impostazione pronta a coordinarsi con il decisivo processo di riforma istituzionale nazionale, che, seppure incerto, considera tuttavia (stando a quanto scritto nel decreto Salva-Italia) la riduzione delle Province ad enti non elettivi svuotate di funzioni come snodo ineludibile e il federalismo fiscale come assetto acquisito della nuova fase della governance del Paese.

Ma c'è anche di più. Le Province, attraverso la loro associazione (l'UPI, Unione delle Province Italiane) si sono svegliate e dalla difesa sono passate all'attacco. Ora propongono al Governo una vera rivoluzione: istituzione di 10 città metropolitane con contestuale abolizione delle corrispondenti Province; soppressione di circa tremila enti (si, avete capito bene, tremila!) che duplicano (non è polemica, lo dicono loro) funzioni proprie delle Province; ridefinizione della consistenza demografica delle Province che restano, con accorpamento di quelle con meno di 350.000 abitanti e dei corrispondenti uffici periferici dello Stato (prefetture, motorizzazioni, provveditorati alle opere pubbliche, uffici scolastici). Un risparmio annunciato (è uno studio della Bocconi) di circa 5 miliardi in un anno, che, a fronte dei miseri 65 milioni di minori spese che risulterebbero dall'attuazione del provvedimento governativo, appare un risultato davvero incredibile, solo che si pensi alla linea di difesa ad oltranza dell'esistente su cui le Province si erano da subito attestate.

Ma attenzione a ciò che si potrebbe prospettare per l'Umbria e per Terni (in realtà per tutti) nel caso la proposta dell'UPI fosse accolta dal Governo e dalla maggioranza che lo sostiene. La Provincia di Terni sarebbe abolita (e con essa, come s'è detto, gli uffici periferici statali) e forse nascerebbe l'unica Provincia dell'Umbria, oppure non nascerebbe affatto, dato che sarebbe difficile negare l'assurdità di una sola Provincia regionale ente elettivo al pari della Regione. In questo caso, che appare il più probabile, le Unioni di Comuni con giusta dimensione territoriale e demografica potrebbero diventare quell'Ente Intermedio tra Regione e Enti locali territoriali che tutti invocano ma che nessuno si decide a indicare con chiarezza. Ecco, è alla luce di tutte queste considerazioni che l'avvio del processo di riforma istituzionale dell'Umbria appare davvero troppo timido e molto probabilmente destinato ad essere presto rivisitato.

Nonostante ciò è partito, e non si potrà fermare. Semmai, se gli assunti derivanti dalle citate analisi dell'AUR non saranno smentiti dai fatti, esso subirà piuttosto un'accelerazione e una radicalizzazione. Converrebbe dunque chiedersi qui da noi, ad Orvieto e nel territorio orvietano, e non solo, se per caso non siamo di nuovo in ritardo rispetto alle trasformazioni che stanno avvenendo sia nel Paese che nella nostra regione. In realtà si tratta di una domanda retorica, perché è evidente che la gara non è a chi guarda più avanti e spinge perché insieme costruiamo il nostro futuro, ma è a chi sta più fermo, nell'illusione di rischiare di meno.

Ricordo a chi non ne avesse memoria (dunque non certo a Pier Luigi e agli altri amici del COVIP) che fu la nostra associazione a preoccuparsi per prima in Umbria di diffondere nei territori la consapevolezza che la costituzione delle Unioni di Comuni non può essere vissuta come uno dei tanti passaggi burocratici senza spessore innovativo, ma al contrario sia come grande occasione di partecipazione democratica, sia come apertura di una nuova fase di progettualità territoriale di ampio respiro, ancor più importante se rapportata a necessità di risanamento e insieme di sviluppo, e alle opportunità derivanti dal superamento delle barriere di assetto amministrativo nelle zone di confine interregionali, com'è appunto il caso di Orvieto.

Il COVIP infatti organizzò nel febbraio 2011 un convegno su quella che allora era solo una proposta di legge per contribuire a dare una soluzione migliore ai tanti problemi aperti, invitando gli amministratori del territorio non solo ad una partecipazione attiva per quell'occasione, ma ad iniziative coerenti ed efficaci anche a livello regionale. Non ci fu una grande risposta, e fu un peccato. Temevamo allora che il processo di riforma prendesse una piega in realtà scarsamente riformatrice, sia per la riaffermazione di un neocentralismo di fatto mai morto, sia per l'aggravante dell'introduzione di troppi surrogati di democrazia come sono le agenzie affidate agli amministratori unici.

Seppure un po' attenuati, questi pericoli purtroppo restano. Perciò, sia per questo, sia perché, oggi che la legge c'è, è ancora più urgente prepararsi ad utilizzare le opportunità che possono derivare da un processo di riforma imperniato sull'Unione di Comuni (purché ovviamente sia attuato in modo serio, dinamico e fortemente innovativo, nei contenuti e nei metodi), ritengo quanto mai utile rilanciare quel tipo di iniziativa con un nuovo convegno. D'altronde ci sono movimenti interessanti anche in altre parti della regione che vanno nella stessa direzione. Però, per diverse ragioni, la sintesi fatta qui da noi forse potrebbe avere una portata maggiore e un valore più pregnante. Ci interessa o no influenzare i processi di trasformazione che sono in corso? In ogni caso, ma soprattutto se assumeranno quei caratteri di vera e propria rivoluzione istituzionale che, diciamolo, sarebbe auspicabile.

Sono ora curioso di sapere come la vede Pier Luigi, ma, senza nulla togliere alla sua sapiente abilità nel raccogliere e rilanciare la palla, mi piacerebbe sapere che cosa ne pensano anche altri, magari non necessariamente esperti di politica e di amministrazione pubblica.

Franco Raimondo Barbabella

 

La prendo da lontano, ma per arrivare presto al dunque. Alla fine del secolo XI, terminate le invasioni degli Úngari e degli Àvari, le città dell'Italia settentrionale e centrale, pur riconoscendo la sovranità dell'Imperatore o del Papa, si organizzarono quasi come piccoli stati. Cominciò l'epoca dei "comuni" che, anche quando erano di modeste dimensioni demografiche e territoriali (e quindi sotto l'influenza dei comuni maggiori) possedevano e custodivano gelosamente forme di autonomia e scaglie di vera e propria sovranità. La civiltà comunale ha lasciato profonde tracce nel sentire comune delle regioni in cui fiorì quel fenomeno, ma anche permeò tutta la cultura giuridica italiana. Tanto è vero che i padri costituenti inserirono nella Costituzione del 1948 una disposizione del seguente tenore: «La Repubblica, una e indivisibile, "riconosce" e promuove le autonomie locali». Riconoscere significa (secondo l'interpretazione letterale, che corrisponde alla volontà dei costituenti) prendere atto dell'esistenza delle autonomie locali. Vale a dire che, in Italia, le autonomie locali non sono state istituite dallo Stato, ma dalla storia. E il nucleo pesante delle autonomie locali sono i comuni, poiché le province hanno minore radicamento storico. È per questo che in Italia è pressoché assurdo liquidare i comuni, anche quelli definiti, quasi con fastidio, "comuni polvere". Ci provò Giuseppe Mazzini a lanciare l'idea di una razionalizzazione dei comuni riducendoli a 1000, da varie migliaia che già erano allora. L'idea finì nel dimenticatoio. Ci provò il governo fascista, ma partorì una legge molto misera rispetto alle intenzioni iniziali e abolì poche centinaia di comuni. Comuni, per la cronaca, che furono in gran parte ripristinati dopo la seconda guerra mondiale.

Tutte le teorie che propugnano l'accorpamento forzato dei comuni sono quindi destinate a cadere, non per la forza del cosiddetto campanilismo, ma per la forza della storia. E non solo per la forza della storia, ma anche per quella della ragione. Infatti l'Italia confina con la Francia, dove i comuni sono cinque volte più numerosi che in Italia e funzionano piuttosto bene, senza che a nessuno, nonostante l'attitudine francese alle riforme suggerite dal famoso esprit de géométrie, venga in mente di potarli.

Allora la soluzione del problema di una maggiore efficienza dei servizi comunali non può che risiedere nella collaborazione intercomunale. Collaborazione che può essere spinta, anche con leggi cogenti nazionali e regionali, e incentivata con aiuti dove essi siano indispensabili.

È ciò che sta avvenendo. Una legge nazionale ha dato disposizioni in merito e le regioni stanno intervenendo negli spazi lasciati loro dalla legge nazionale. A loro volta, le regioni lasciano spazi alle autonomie comunali. La Regione dell'Umbria è stata piuttosto sollecita nel legiferare, anche perché aveva bisogno di liberarsi di due patate bollenti: le comunità montane e gli ATI, tutta roba pasticciata soprattutto a causa di una infelice legislazione regionale. La Regione dell'Umbria se l'è cavata inventandosi (anzi, copiandole dalla Toscana) le "unioni speciali di comuni", enti di secondo grado con territori grosso modo corrispondenti a quelli di una o più delle attuali zone sociali nell'ambito della stessa ASL, e che subentreranno alle comunità montane e agli ATI. Per quanto ci riguarda, l'unione speciale dovrebbe corrispondere ai tredici comuni del comprensorio orvietano.

Le unioni speciali di comuni eserciteranno, per l'aspetto politico-amministrativo, funzioni conferite dalla regione in materia di politiche sociali, turismo, boschi, terreni soggetti a vincolo idrogeologico, agricoltura, funghi e tartufi e, dove non vi sono consorzi di bonifica, le funzioni di tali consorzi. Invece, per le stesse materie, le funzioni tecniche, gestionali e operative saranno svolte da enti strumentali regionali.

Le unioni speciali potranno svolgere anche funzioni comunali affidate loro dai comuni con convenzione.

Per quanto riguarda le funzioni comunali bisogna distinguere le cosiddette funzioni fondamentali (attualmente: funzioni generali di amministrazione; polizia locale;
istruzione pubblica; viabilità e trasporti; gestione del territorio e dell'ambiente; funzioni del settore sociale) da tutte le altre, che possono esser le più svariate.

In base alla legge regionale, la sorte dei servizi comunali è la seguente:

a) i comuni fino a 1000 abitanti devono esercitare sia le funzioni fondamentali che le altre in una unione di comuni o mediante l'unione speciale di comuni alla quale appartengono, stipulando con essa una convenzione;

b) i comuni da 1001 a 5000 abitanti possono scegliere di esercitare in forma autonoma le funzioni non fondamentali; ma per le funzioni fondamentali devono entrare in una unione di comuni o in una associazione di comuni o convenzionarsi con l'unione speciale di comuni;

c) i comuni al di sopra di 5000 abitanti possono esercitare tutte le funzioni in autonomia o entrare in una unione, o in una associazione o convenzionarsi con l'unione speciale dei comuni.

Va precisato che le unioni dei comuni sono enti di secondo grado, cioè con organi nominati non dal corpo elettorale ma dai comuni, mentre le associazioni non sono enti, ma si basano su convenzioni tra comuni che prevedono un comune capofila il cui sindaco concorda con gli altri sindaci gli indirizzi per la gestione associata di funzioni e servizi.

Per creare questo guazzabuglio ci è voluta una buona dose di confusione mentale sia da parte del parlamento nazionale che del consiglio regionale. Una confusione che deriva dalla paura delle reazioni delle autonomie locali e da una sconfortante sfiducia nella capacità degli amministratori locali di fare scelte oculate. Debolezza e diffidenza, quindi, ma anche provincialismo, consistente nella ostentata disattenzione a esperienze europee già positivamente collaudate.

In questo contesto, gli amministratori comunali del comprensorio orvietano non hanno altra strada che riflettere sul quadro legislativo, individuare alcune soluzioni organizzative di massima e, per ogni ipotesi di soluzione, calcolare le risorse disponibili, tenendo conto anche degli incentivi regionali. La soluzione più semplice è quella di non moltiplicare le unioni di comuni, ma di puntare sull'unione speciale di comuni con convenzioni-tipo per i vari servizi. Le soluzioni più complicate, ma non per questo scartabili a priori, sono infinite.

Per quanto riguarda le province, il fatto che tutti, tranne gli amministratori e i dipendenti provinciali, ne parlino con un certo disprezzo, conferma l'analisi storica con la quale ho esordito. Esse non sono radicate nel sentire collettivo come i comuni, e pochi le rimpiangerebbero. Quando furono costituite le regioni, non ci si volle accorgere che la massa degli amministratori pubblici e degli uffici sarebbe diventata pletorica. Con lo sviluppo delle forme collaborative intercomunali le province diventano ancora più pleonastiche. Peraltro non è scritto da nessuna parte che l'abolizione delle province, che sono enti locali, comporti necessariamente l'abolizione degli uffici statali o regionali ubicati nei capoluoghi di provincia; anzi, le province potrebbero conservare il titolo e il ruolo di circoscrizioni statali e regionali. Il governo Monti sta tentando, Corte Costituzionale permettendo, di svuotare le province nel solo modo (forse) consentito dalla costituzione. L'opinione pubblica rimane impassibile, mentre è giustamente molto più attenta alla dislocazione dei servizi statali, regionali e comunali, come gli uffici giudiziari e finanziari, le scuole e gli ospedali nonché degli uffici dei concessionari di servizi pubblici come le poste, i gestori dei gasdotti, degli elettrodotti e delle linee telefoniche.

I problemi sono tanti, difficili e urgenti. E allora che cos'è questo strano silenzio?   

Pier Luigi Leoni

 


Pubblicato il: 13/02/2012

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