Archivio Orvietosi Archivio anni 2002-2012: NOTIZIE
NOTIZIE CORSIVI

È penoso ma doveroso parlare di lavoro e di sviluppo economico nonostante la crisi

Ping pong #13 "Nella realtà orvietana, com'è arcinoto, non si è mai realizzato un distretto produttivo né è cresciuto un poliforme ma solido sistema di piccola e media impresa industriale. Anzi, per lungo tempo l'industrializzazione è stata vista come pericolo di stravolgimento territoriale e culturale e ci si è attestati, oltre che sul turismo e sull'agricoltura, da una parte sull'artigianato, e dall'altra sull'edilizia"

foto di copertina

"Noi sappiamo lavorare, c'è qualcuno che sa fare l'imprenditore?" È questo lo slogan che hanno urlato ieri mattina le operaie della ex Grinta. (Da un articolo pubblicato da OrvietoSi l'8.12.2011)

Quella delle operaie della ex Grinta è proprio una gran bella domanda, che assume ancor più spessore (e, purtroppo, sapore drammatico) se integrata con le parole pronunciate da Rita Paggio, responsabile della CGIL di Orvieto, nel corso della manifestazione di mercoledì in piazza Duomo: "Perché l'eccellenza di un territorio passa anche per la qualità delle produzioni e soprattutto del lavoro che esso esprime". È  proprio così, ed è non solo rispondente alla capacità di osservazione che anche i non esperti possono avere, ma ampiamente confermato da tutte le indagini nazionali e internazionali. In particolare, il CENSIS per anni ha insistito sulla vitalità delle realtà locali come spinta alla crescita ed ha visto nei distretti industriali l'aspetto emblematico di un'Italia capace di reggere alle crisi e di proiettarsi ogni volta in avanti, conquistando, con la creatività propria delle piccole e medie imprese, anche spazi significativi nei mercati internazionali.

Nella realtà orvietana, com'è arcinoto, non si è mai realizzato un distretto produttivo né è cresciuto un poliforme ma solido sistema di piccola e media impresa industriale. Anzi, per lungo tempo l'industrializzazione è stata vista come pericolo di stravolgimento territoriale e culturale e ci si è attestati, oltre che sul turismo e sull'agricoltura, da una parte sull'artigianato, e dall'altra sull'edilizia. Ma l'artigianato, anche quando ha raggiunto notevoli livelli di qualificazione, ha agito (o è stato costretto dalle circostanze ad agire) sostanzialmente da solo, cioè senza un adeguato supporto né finanziario né dei servizi tecnici e organizzativi; e l'impresa edile è vissuta più sull'espansione urbana a singhiozzo che non su un'idea di impresa flessibile e competitiva capace di guadagnare orizzonti extraterritoriali. Un discorso a parte merita naturalmente l'impresa delle costruzioni nel settore delle infrastrutture stradali e ferroviarie.

Negli anni più recenti, anche a seguito dell'esperienza ITELCO, era stato stimolato l'insediamento di aziende del settore della componentistica delle telecomunicazioni e dell'informatica di servizio, ma anche in questo caso nessun vero decollo.

Dunque mettiamo un punto. Possiamo dire che l'unico settore che ha saputo imporsi sui mercati con una forza visibile è quello vitivinicolo? È difficile negare che sia così, perché, a parte singole aziende qualificate e dinamiche, un vero sistema produttivo stabile e permeabile ai cambiamenti non si è realizzato in nessuno dei settori fondamentali: non nell'artigianato di produzione e di servizio, non nell'edilizia, e non certo nell'industria. Ci sono alcuni imprenditori veri, e lo hanno dimostrato, ma manca di sicuro una cultura imprenditoriale diffusa.

Allora, alla domanda giusta delle lavoratrici dell'ex Grinta bisogna rispondere onestamente che, come per ogni cosa, nulla che sia serio e stabile si inventa all'improvviso. Vale per la loro capacità di lavorare bene, ma vale anche per la cultura d'impresa. Perciò la loro domanda si trasforma per forza di cose in una serie di domande, tra loro interconnesse: è da considerare sufficientemente coraggiosa, lungimirante e ben gestita, la politica che si è fatta nel nostro territorio per organizzare le aree industriali? Diverse aree artigiano-industriali in un territorio piuttosto limitato, trasformate peraltro quasi dappertutto prevalentemente in aree commerciali, sono state una scelta azzeccata? Nelle scelte strategiche generali che si decidono fuori dal territorio noi siamo stati e siamo presenti in modo adeguato ed efficace? È stata e viene fatta una politica di programmazione moderna del territorio (tecnicamente, finanziariamente, culturalmente) e con essa una vera promozione competitiva? Quando qui da noi si parla di capacità competitiva ci intendiamo o è semplicemente parlare arabo? Il ruolo del sistema del credito è stato ed è sufficientemente rispondente alle esigenze?

Rita Paggio ha ragione a dire quel che ha detto. Anzi, mi auguro che il suo discorso assuma valore più generale ed indichi una svolta negli orientamenti della nostra comunità, che il sindacato può certamente aiutare ad affermare realmente. Dobbiamo però essere molto chiari, evitando la cattiva abitudine di far finta di non sapere: la scelta di fondo che è stata fatta negli ultimi decenni, consenziente la stragrande maggioranza delle forze economiche, politiche e sociali che contano, è stata di favorire, prima e al di sopra di ogni cosa, l'espansione edilizia e le attività poco qualificate, a basso livello di formazione e a basso costo di manodopera. A questa scelta sono state subordinate tutte le altre, e i pochi che avevano una visione più articolata, e che per questo hanno contrastato quell'orientamento e i connessi interessi, sono stati additati come nemici del popolo ed emarginati. Credo sia difficile negarlo.

Non posso dimenticare che già nel 1988, ben 23 anni fa, la lotta politica si stava sviluppando proprio su questo punto. Qualcuno ricorda la teorizzazione della città da 30.000 abitanti sognata come giustificazione di un'espansione edilizia che il sindaco di allora veniva accusato di non volere? Era vero che quel sindaco non la voleva, perché era chiaro già allora ciò che sarebbe avvenuto negli anni, quelli vicini e quelli più lontani (a scanso di facili sorrisi: non c'era bisogno di possedere doti divinatorie, bastava girare un po', leggere qualcosa, parlare con un po' di gente di altre realtà, non essere legati a interessi particolari). Ed appunto è tutto avvenuto: l'espansione c'è stata, e pure tutte le conseguenze, però la città non solo non è arrivata a 30.000 abitanti, ma al contrario si è ridotta in popolazione e in mezzi disponibili, e il tessuto produttivo ne è stato fortemente condizionato, come oggi tutti amaramente siamo costretti a constatare.

Mi chiedo se saremo in grado, a partire dai problemi che abbiamo, di riflettere su ciò che è successo per guadagnare finalmente una visione moderna e seria delle cose da fare. In tempi umani però, perché il mondo non sta aspettando noi. Peraltro dentro la crisi drammatica che viviamo, che cambia i connotati di tutti i ragionamenti e anche lo stato reale e psicologico delle persone. Cerchiamo almeno di non dare spazio a chi, soprattutto ai sistemi di chi, non ci ha facilitato la vita. Mi fermo, e passo la palla a Pier Luigi.

Franco Raimondo Barbabella 

Ci troviamo nel mezzo di una crisi economica di portata immane, col tessuto produttivo italiano in sfacelo e con problemi di tenuta del bilancio dello stato. La fase più dura cominciò con la bancarotta degli allevatori di bestiame da latte e di suini di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna (25.000 aziende zootecniche chiuse negli ultimi due anni), continuò con la crisi dei coltivatori di frutta e di verdura di Sicilia, Puglia e Campania, costretti a non raccogliere i prodotti per mancanza di compratori, e coi fallimenti dei produttori di macchine agricole e utensili. I dati del disastro sono forniti dalle autorità e dai mass media con ritrosia  e i dati sui suicidi di piccoli e  medi imprenditori e di operai disoccupati sono tenuti addirittura nascosti. Poi l'ondata della crisi ha colpito la ricca Marsciano soprattutto nel settore dell'edilizia e ce la siamo vista arrivare addosso nella meno ricca Orvieto, sempre principalmente nel settore dell'edilizia.

Per non parlare della crisi del bilancio dello stato e della falcidia dei redditi che il governo è costretto a praticare, mentre il popolo si sta rassegnando perché comincia a capire che tra qualche settimana lo stato non avrebbe potuto pagare un quinto degli stipendi ai dipendenti pubblici e un quinto delle pensioni. Tanto che chi parla di uscita dall'Europa e di ritorno alla lira è giustamente trattato come uno che non sa quello che dice.

In questo clima, discutere sulle responsabilità della debolezza del sistema economico orvietano dà una certa malinconia, e a voler discutere con costrutto sulle cose da fare si rasenta la disperazione.

Ma la palla mi è stata passata e devo stare al gioco. Allora non posso tacere l'influenza che, secondo me, hanno avuto l'indole orvietana e l'ideologia.

Quanto all'indole, non credo si possa negare che la rivoluzione industriale non era fatta per gli Orvietani. Individualisti e poco portati allo spirito di avventura, ma anche al rigore e alla disciplina che richiede l'intrapresa industriale, hanno dissipato una millenaria tradizione di eccellenza nell'artigianato. Basti un esempio che mi fa sempre un amico orvietanissimo: tra centinaia di calzolai capaci di fare calzature di ogni tipo, non ce n'è stato uno in grado di mettere su una fabbrica.

Quanto all'ideologia, non credo si possa negare che il comunismo di stampo contadino fosse ostile soprattutto alla piccola impresa, nella quale notoriamente i sindacati contano poco o nulla e il partito ancora meno. Si potrebbero scrivere storie di piccoli imprenditori che sono stati perseguitati con perfidia fino a rovinarli. Ma se vi fosse stato un vivaio di soggetti con spiccate capacità imprenditoriali, i marxisti orvietani sarebbero stati costretti a venire a patti, come avvenne invece in Toscana  e in Emilia Romagna.

In quel clima, la classe politica dominante, dopo aver tolto di mezzo un sindaco che s'era messo di traverso, imboccò la via facile dell'edilizia privata. Il piano regolatore divenne un elastico che arrivò ad abbracciare anche le zone di esondazione del Paglia e del Chiani e le aree sottostanti ai grandi elettrodotti. La scusa fu che la popolazione si riversava su Porano e Allerona Scalo, dove  le amministrazioni comunali, bianche o rosse che fossero,  non avevano scrupoli a fare concorrenza a Orvieto. Il motivo vero fu che non volevano vedere oltre il loro naso.

Quando dunque le operaie dell'ex Grinta dicono che il loro lavoro lo sanno fare, perciò venga fuori un imprenditore che sa fare il suo, dimostrano un sano orgoglio, ma temo che la loro (e la nostra) speranza non sarà facilmente soddisfatta.

Resta il problema di ripensare la politica economica con mente più aperta, con "una visione più articolata", come dice Franco. Confesso di non essere ottimista per quanto riguarda l'industria, mentre guardo con maggiore speranza ai servizi turistici e culturali.

Pier Luigi Leoni

    


Ping Pong è la nuova rubrica di Orvietosì curata da Franco Raimondo Barbabella e Pier Luigi Leoni. Un appuntamento del lunedì in cui i due nostri "amici" raccontano la loro su una frase apparsa sul nostro giornale durante la settimana, una palla che io lancio ad uno dei due e che loro si rimpallano. Ci auguriamo che questo gioco vi piaccia e si ripeta il successo di "A Destra e a Manca". Naturalmente tutti i lettori sono invitati la tavolo di Ping Pong. Basta inviare una e-mail a dantefreddi@orvietosi.it

Questa è la puntata 13


Pubblicato il: 12/12/2011

Torna alle notizie...