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Sul CSCO interviene l'ex presidente Pirkko Peltonen

di Pirkko Peltonen Ex-presidente Fondazione Centro Studi (2007-2009)" E' davvero stupefacente come, tra un'enunciazione e l'altra (volte soprattutto a cercare nelle passate amministrazioni "la madre di tutte le sciagure"), non si arrivi a formulare un "Progetto per Orvieto" che, partendo dalla vocazione consolidata, sappia indicare il futuro per tutta la città..."

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Ultimamente si è molto animato il dibattito cittadino sul destino del Centro Studi. Penso possa servire un tassello in più, e cioè, raccontare ciò che vi è successo tra il 2007 e il 2009, quando io (assessora nella giunta Mocio) ebbi l'incarico di presiederlo. 

Premetto subito che, in questo appunto, non intendo entrare nel merito del tragico deficit dell'ente, né spiegare, ora, come nel corso degli anni si è formato.

Voglio cogliere ciò che nei (molti) interventi recentemente pubblicati attiene alla sostanza della questione: il Centro Studi serve o non serve? 

 

Ha ragione l'ex sindaco Cimicchi quando nel suo intervento (l'ho letto il 23.11.) propugna la causa dell'"economia della conoscenza" quale volano di uno sviluppo dinamico per la città, sua idea da più di dieci anni. E quando dichiara "una follia" lasciar morire la pianta (CSCO) da lui seminata.

 

Erano gli anni (quelli della "semina", 2000) in cui, grazie ad una nuova impostazione europea (non solo italiana) delle università, il "decentramento" divenne la parola d'ordine. In Italia prese la via dell'idea di "un'università in ogni borgo". L'idea piacque molto anche agli amministratori dei piccoli centri, perché foriera di bei consensi elettorali.

Non fu così altrove in Europa, non sarà mai più così in Italia. Nell'Europa che conta per livelli di formazione universitaria raggiunti, si assiste oggi all'accorpamento, non solo di facoltà ma di università intere: e ciò per creare dei "centri d'eccellenza", capaci di sfornare ricercatori ad altissimo livello.    

 

Ecco perchè Cimicchi ha davvero torto nell'insistere sulla ricetta vecchia: quella del/dei corsi di laurea universitari ad Orvieto. Orvieto non avrà mai la sua università, ed è giusto che sia così. Perché l'alta formazione non vuol dire soltanto università nel senso tradizionale. Esempi di alta formazione professionalizzante sono, tra gli altri, le "Fachschule" tedesche, i molteplici corsi di specializzazione post lauream, le molte iniziative nuove che sanno collegare formazione innovativa e accesso al lavoro altamente qualificato.   

 

Ha, quindi, senz'altro ragione il consigliere Ranchino (l'ho letto il 24.11.) circa i corsi di laurea: il cosiddetto "decreto Mussi" (e la successiva normativa) vincolava effettivamente il riconoscimento dei corsi di laurea a certi "requisiti minimi": un certo numero di iscritti e un certo numero di docenti, quest'ultimo per un criterio di qualità d'insegnamento, a livello nazionale. L'apertura (o la continuazione) di un corso di laurea richiedeva, poi, la garanzia di continuazione dei corsi per vent'anni, e l'impegno economico, da parte del richiedente, di una totale copertura dei costi.

 

Ritengo tutt'oggi saggia la decisione presa della giunta Mocio nel 2008, quella di non attivare più il corso di laurea in Ingegneria e Telecomunicazioni ad Orvieto. Il suo costo iniziale sarebbe stato di circa 360.000 euro all'anno, con rivalutazioni a crescere nei vent'anni programmati. Il tutto a carico del Comune, visto che non vi era, al momento, alcun apporto o interesse da parte delle imprese o dei privati. Lo so, per aver partecipato ad innumerevoli tavoli tra esponenti dell'università, delle associazioni delle imprese, della Fondazione Cassa di Risparmio.

 

Ha gran torto, invece, il consigliere Ranchino là dove prospetta per il Centro Studi un futuro "minimalista", custode e curatore, eventualmente, del prospettato Centro di Documentazione della Ceramica, oppure operatore di un futuro Centro Culturale della Tuscia, oppure di qualche cosa d'altro, non meglio specificato. Sempre, comunque, in un ambito locale, localistico, turistico, may be. Con l'ingresso "indispensabile" di soci privati, in una struttura totalmente rinnovata oppure in un nuovo ente, una volta messa in liquidazione l'attuale Fondazione.

Così ragiona chi vuole "accrescere il fatturato".

 

Di tutt'altro parere, invece, mi pare, l'attuale presidente del Centro Studi, il professor Pasca di Magliano. Da parte sua giunge l'accorato richiamo ad un "rilancio del Centro Studi", ora che "i conti sono in ordine e la spesa in contenimento". Sottointeso: prima non era così, nei tempi degli sprechi.

 

Ad onor del vero, devo ricordare al professor Pasca che tutte le remunerazioni extra (comprese i gettoni dei consiglieri e del presidente) furono azzerate nel luglio 2007 (e non sotto la sua presidenza); idem per i contratti di consulenza esterni, tutti chiusi tra il 2007 e il 2008 (e non sotto la sua presidenza).

Le attività, poi, elencate sempre dal professor Pasca (i rapporti con le Università americane, la Scuola Librai, il Cersal - centro per la sicurezza alimentare -, il corso di Management del Vino, la Scuola di perfezionamento in Medicina Veterinaria Preventiva) sono, tutte, senza eccezione, nate e negoziate negli anni precedenti alla guida del prof. Pasca. Così anche la Scuola di perfezionamento in Psicologia della Salute e la Scuola di archeologia.

Nei due anni della presidenza Pasca hanno continuato a sopravvivere; ora sono a serio rischio, soprattutto perché i due soci fondatori non onorano più le loro quote societarie (il Comune di Orvieto, dopo aver già drasticamente diminuito la propria quota, nell'anno 2011 l'ha del tutto azzerata; la Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto ha smesso di corrispondere la sua quota dal 2008).        

 

Quale futuro potrà mai esserci per un ente di cui si sono così palesemente disinnamorati gli stessi suoi fondatori?

 

La questione è, di tutta evidenza, squisitamente politica. E riguarda il futuro, non solo del Centro Studi, ma della città. In una visione miope, l'alta formazione - perché per definizione non immediatamente remunerativa - viene considerata alla pari di un ramo secco da tagliare subito. In una visione immobilista, tagliettino dopo tagliettino, il ramo crolla per forza di inerzia.

E' lo status quo, oggi, della città nel suo complesso.

 

E' davvero stupefacente come, tra un'enunciazione e l'altra (volte soprattutto a cercare nelle passate amministrazioni "la madre di tutte le sciagure"), non si arrivi a formulare un "Progetto per Orvieto" che, partendo dalla vocazione consolidata, sappia indicare il futuro per tutta la città. Che come veicolo di prosperità e di progresso non ragioni soltanto in termini del turismo (tragico, anche in quel campo, l'attuale immobilismo!), ma sappia guardare oltre la siepe.

 

Che l'innovazione e un nuovo "saper fare" siano le uniche carte per il futuro dei giovani, lo sanno tutti. Ad Orvieto, la struttura - da potenziare, da riempire di attività compatibili con il mondo moderno e ad alto valore intellettuale aggiunto - c'è già. E' il Centro Studi. Alcune indicazioni anche molto pratiche, formulate pensando al mondo che verrà, le ha suggerite la consigliera Anna Rita Mortini (l'ho letto il 29.11.): "per fare di Orvieto una città atta ad educare e formare persone durante tutto l'arco della loro vita. Il futuro, infatti, sarà sempre più fatto da cittadini che non smettono mai di apprendere".

 

Prettamente politica è anche la questione della sede, oggi nell'ex-ospedale. Cosa mai si vorrà fare di tutto il centro storico di Orvieto? Sarà friendly anche ai suoi abitanti, con attività, case e servizi a disposizione dei cittadini, o sarà trasformato in un museo silenzioso, ad alti costi e con esercizi solo in funzione dei turisti, magari imbellito di un destination hotel cinque stelle nell'ex-ospedale (idea suggerita dal sindaco Concina al Consiglio comunale del 30.11.), e con le strutture cittadine a far da quinta alle fiction televisive (come auspicato dall'assessore Marino, sempre al Consiglio comunale del 30.11.)?

Certo, si può ragionare anche in questo modo. Disporre, cioè, della città. Ma non sarebbe meglio sentire i cittadini? Una città è una struttura vivente: respira, pulsa al ritmo di chi la abita.

 

E' mio augurio, davvero sincero, che per una volta la bella ragione, quella che guarda al futuro, a quello che si potrà fare domani, possa averla vinta sulle piccole polemiche e sullo "sguardo corto"; sulle eterne fazioni e le loro eterne lotte inconcludenti.  

 

Dei miei due anni al CSCO (2007-2009), mi rimane il rammarico di non aver saputo e potuto risollevarne le sorti. Certo, non era facile gestire una struttura con l'impressionante deficit lasciato in eredità dalla gestione precedente (presidente Stefano Cimicchi). Dico questo, non per giustificare il mio operato, ma perché anche questo tassello va messo al suo posto.

 

Pubblicato il: 03/12/2011

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