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Discussione su 'La cattiveria e la malvagità umana, il bisogno e la capacità, perfino il gusto, di fare male al prossimo'

Ping pong #6 La frase commentata è "Non è infatti tollerabile che tali manifestazioni ( atteggiamento del PD sulla questione Ranchino-Turreni ndr) rimangano senza conseguenze altrimenti Orvieto sarà, come sta diventando, la capitale dell'odio, della delazione anonima, del sospetto e della delegittimazione, nella quale avranno piacere di vivere solo i soggetti avvezzi a tale modus vivendi.(Da una nota di Angelo Ranchino su OrvietoSi del 24.10.2011)"

Non è infatti tollerabile che tali manifestazioni ( atteggiamento del PD sulla questione Ranchino-Turreni ndr) rimangano senza conseguenze altrimenti Orvieto sarà, come sta diventando, la capitale dell'odio, della delazione anonima, del sospetto e della delegittimazione, nella quale avranno piacere di vivere solo i soggetti avvezzi a tale modus vivendi. (Da una nota di Angelo Ranchino su OrvietoSi del 24.10.2011)

Non ho il benché minimo dubbio che Angelo Ranchino abbia ragione, e proprio per questo mi sento di fare le considerazioni che seguono. In via preliminare osservo che il fenomeno che egli denunzia è presente (in particolare nella città storica) da molto tempo, con conseguenze senz'altro significative, tanto che chi volesse scrivere una storia puntuale dei decenni più recenti non potrebbe prescinderne. Il che non è cosa da liquidare con un'alzata di spalle, perché vuol dire: 1. che questo è un (mal)costume, e non una folata di vento; 2. che esso riguarda sia le classi dirigenti (politiche e non), sia chi le sceglie e/o le tollera; 3. che, di conseguenza, il fenomeno non si capisce e non si combatte con semplicistiche formulette in perfetto stile politichese, del tipo "è il lascito del vecchio regime", anche se con il vecchio regime ha a che fare eccome.

Cerco di essere più chiaro. Il fenomeno di cui stiamo parlando non riguarda puramente e semplicemente l'esistenza del lato c (la cattiveria) o del lato m (la malvagità) dell'umanità, che è di per sé evidente (se ne sono occupati testi sacri, filosofi, scrittori e poeti, e una schiera infinita di studiosi del vasto campo delle scienze umane), ma che di per sé non può essere una fonte esaustiva di spiegazione.

E' noto, infatti, che già nel seicento quel genio di Thomas Hobbes, dopo che più di un secolo prima Erasmo da Rotterdam aveva detto che "Homo homini aut deus, aut lupus" (l'uomo è per l'altro uomo o dio o lupo), sostenne che nello stato di natura vige la condizione, e di fatto la regola, dell'"Homo homini lupus" (l'uomo è lupo per l'altro uomo), da cui si esce solo con la rinuncia alla libertà assoluta (che di fatto nega se stessa) e con la nascita dello stato e del potere sovrano.

In un certo senso lì siamo ancora, appunto nel senso che la cattiveria e la malvagità umana, il bisogno e la capacità, perfino il gusto, di fare male al prossimo (e non è raro il caso che più il prossimo è prossimo e più il bisogno e il gusto di fargli male sono forti), non vengono eliminati dal contratto sociale, dalla nascita dello stato moderno, dal potere sovrano e dalla legge (anche quando con il codice napoleonico si affermerà il principio che la legge è uguale per tutti). Essi ci sono, si mescolano con tutto ciò che di buono possono fare le persone nella quotidianità dell'esistenza e danno luogo semplicemente alla complessità della vita. Ci sono e talvolta restano latenti, altre volte invece si manifestano o addirittura esplodono, soprattutto quando si allentano i vincoli culturali e sociali, lo stato marca visita, le regole diventano o sono vissute come opzionali, come accade oggi.

Il fenomeno dunque in generale riguarda più propriamente, in epoca di regime democratico, la trasposizione del bisogno e della capacità di far male al prossimo (ripeto, di più se è più prossimo) sul piano della lotta politica. Da questo punto di vista, naturalmente a parer mio, non si può sostenere né che da sempre è stato così, né che, pur essendo il fenomeno di vecchia data, si sia manifestato da decenni nello stesso modo e con la stessa intensità.

E anche qui mi spiego meglio. E' nota la frase pronunciata da Don Basilio nella commedia di Pierre-Augustin de Beaumarchais Il barbiere di Siviglia (1775) tradotta poi in opera lirica  con libretto di Cesare Stermini e musica di Gioacchino Rossini (1816): Calomniez, calomniez; il en restera toujours quelque chose (calunniate, calunniate; qualcosa resterà sempre), frase diventata una famosissima aria: La calunnia è un venticello/ Un'auretta assai gentile/ Che insensibile sottile/ Leggermente dolcemente/ Incomincia a sussurrar./ Piano piano terra terra/ Sotto voce sibilando/ Va scorrendo, va ronzando,/ Nelle orecchie della gente/ S'introduce destramente,/ E le teste ed i cervelli/ Fa stordire e fa gonfiar. Concetto coinvolgente, cantata e versi stupendi. L'origine del concetto è stata attribuita ora a Rousseau, ora a Voltaire, ora ai gesuiti (questi ultimi in quanto contrapposti all'affermarsi delle moderne monarchie assolute che limitavano il potere ecclesiastico all'interno degli stati), ma il primo a formularne il concetto in epoca moderna è stato certamente l'inglese Francesco Bacone nell'opera Sulla dignità e sul progresso delle scienze del 1623.

Già allora dunque, tra seicento e settecento, era avvenuta la trasposizione del fenomeno dal piano individuale a quello politico, ma restava pur sempre qualcosa di anormale. Ed è restato in fondo qualcosa di anormale anche in epoca di democrazia diffusa, finché non si sono allentati i vincoli culturali e sociali e le regole hanno incominciato ad essere vissute come inutili orpelli. Per cui tutti pensano di poter fare tutto, niente selezione, bassa competenza e scarsa qualità. E così siamo al parossismo del fenomeno, nel nostro paese e nelle nostre città, in particolare proprio ad Orvieto, dove la denigrazione è stata assunta di fatto da decenni come metodo normale di lotta politica, con cui sono state ottenute decapitazioni e costruite carriere.

Il punto vero dunque non è se il fenomeno c'è o di che natura è. Il punto è perché, pur sapendo che c'è e di che natura è, lo si lascia vivere e prosperare, salvo scandalizzarsi e farne denuncia solo quando se ne è colpiti personalmente. Non che non sia giusto scandalizzarsi e farne denuncia, ma sarebbe meglio se la questione diventasse di consapevole contrasto politico-programmatico e di ripristino di un corretto stile pubblico, cioè di regola di contrasto rigorosamente praticata da tutti. Ad esempio escludendo da cariche pubbliche chi notoriamente si sia avvalso della denigrazione quale metodo di lotta politica. Potrebbe essere un punto rilevante di un codice etico da scrivere e da adottare presto.

Mi pare di aver detto abbastanza. Perciò passo la palla a Pier Luigi.

Franco Raimondo Barbabella

Per ragioni di famiglia e di lavoro ho avuto modo di conoscere con una certa profondità l'indole di almeno una decina di comunità. La più grande è Viterbo (quasi 70.000 abitanti),  la più piccola Proceno (appena 600). Sono stato sempre incuriosito dalle differenze e, nonostante la mia sia una piccola esperienza di vita, essa ha segnato il mio modo di vedere le cose. Vale a dire che non mi sono contentato dei luoghi comuni e degli sberleffi coi quali ogni comunità si atteggia nei confronti di quelle vicine, ma ho cercato di riflettere.

Nel mio pamphlet "Orvieto kaputt - La vendetta del villano", pubblicato nel 1997, mi lasciai sfuggire le seguenti affermazioni che nel Medioevo mi avrebbero dato guai con la Santa Inquisizione.

L''esperienza quotidiana conferma ciò che il senso comune ha dato per scontato ciò che gli studiosi stanno tentando di dimostrare sperimentalmente: la città, come ogni sistema sociale, ha una mente collettiva e possiede una coscienza collettiva. Gli individui, come cellule di un organismo, sono influenzati dal modello mentale collettivo e, nello stesso tempo, lo plasmano. Gli esseri umani, come cellule di un organismo, nascono crescono muoiono, hanno la loro vita, la loro mente, la loro coscienza, il loro destino individuale. Ma sono determinati dai sistemi sociali di cui fanno parte e nel contempo contribuiscono a determinarli. Se poi i sistemi sociali vengono concepiti come sistemi ecologi­ci, dove esseri viventi e materia non vivente risultano organica­mente strutturati, ecco che si decolla verso i cieli sconfinati dove scienza, filosofia e religione si attraggono a si respingono in una lotta  perenne tra contendenti che hanno il comune scopo di lacerare il velo del Mistero.

In questo quadro appare illuminante e sensata, ancorché inquietante, l'ipotesi che i sistemi sociali siano dotati di un libero arbitrio. Cioè non funzionino secondo catene lineari di causa ed effetto, ma godano di una loro autonomia, di una libertà di scelta orientata ma non predeterminata da una sorta di codice genetico, condizionata ma non soffocata dalle esperienze di vita vissuta, limitata ma non repressa da mille influenze ambientali.

Con questi sentimenti e questi pensieri mi piace parlare di Orvieto, città che amo intensamente, come figlio adottivo ben accolto e ben trattato. E spero che la mancanza di un legame viscerale mi lasci più sciolto il cervello.

Nello stesso libro citavo un saggio anonimo del 1854, che degli Orvietani  stigmatizzava quella spensieratezza, quella infingardaggine, quella disoccupazione e quell'oziosità che portano i più al chiaccherìo, al vano proggettismo ed all'abuso del vino e del giuoco, che gettano nella povertà li artigiani, massimamente quando alla poca voglia di lavorare sopravviene la mancanza delle forze. Tali vizj danno pur origine alla smania d'occuparsi de' fatti altrui più che de' propri, ed a passare il tempo a spiare, a mormorare e far chiassi.

Da parte mia, ciò che mi ha sempre colpito dei miei concittadini orvietani, salvo eccezioni, è la grande curiosità delle altre persone e dei loro fatti, nonché la grande libertà nel parlare e nello sparlare del prossimo. Con un particolare impegno nel mettere in rilievo i difetti, i guai familiari, l'umiltà delle origini, le colpe che ne hanno determinato le sfortune  e le birberie che ne hanno determinato le fortune. Non che altrove non esista la maldicenza, ma quella orvietana è particolarmente calzante e incalzante. Se non si dicono case vere si dicono cose verosimili, perché devono colpire il bersaglio e nessuno deve essere risparmiato. Tutti siamo bersagli, ma portiamo con una certa nonchalance il peso delle frecce che ci vengono scagliate contro perché sappiamo che alla radice della maldicenza c'è solo la pena per la propria mediocrità e quindi la paura che qualcuno, emergendo, la faccia più chiaramente apparire per quella che è.

Il web ha potenziato in Orvieto le occasioni di sfogo della cattiveria dilatando l'ambiente del Corso, quel calle mayor che, nell'omonimo film di Juan Antonio Bardem, è il luogo emblematico della cattiveria cittadina. Fino a quando i direttori responsabili dei giornali on line  hanno dovuto alzare gli argini per contenere il veleno esondante.

Questo surplus di cattiveria inquina anche la politica. I maldicenti da bar, quando la loro ordinaria malizia si sposa all'ambizione politica, e questa non trova sfogo, si trasformano in "avvelenatori di pozzi". Così chiamava Stefano Cimicchi questi sventurati che si masturbano insidiando chi detiene il potere cui loro aspirano in modo spasmodico.

Come se ne esce? Non curandosi di loro, ma di tutti quegli Orvietani che lavorano tanto e chiacchierano poco, che danno vita ad uno splendido, efficiente e dignitosamente silenzioso apparato di azione volontaria  a favore di chi soffre. Perché infine va detto: gli Orvietani hanno un grande cuore, anche se con le coronarie un po' intasate da tremila anni di circolazione su questa magnifico, ma tutto sommato angusto pianoro tufaceo.

Pier Luigi Leoni


Ping Pong è la nuova rubrica di Orvietosì curata da Franco Raimondo Barbabella e Pier Luigi Leoni. Un appuntamento del lunedì in cui i due nostri "amici" raccontano la loro su una frase apparsa sul nostro giornale durante la settimana, una palla che io lancio ad uno dei due e che loro si rimpallano. Ci auguriamo che questo gioco vi piaccia e si ripeta il successo di "A Destra e a Manca". Naturalmente tutti i lettori sono invitati la tavolo di Ping Pong. Basta inviare una e-mail a dantefreddi@orvietosi.it 
Questa è la puntata 06.
L'archivio
di Pin pong è nella rubrica sotto la testata




 

Pubblicato il: 31/10/2011

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