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Il Jazz allo stato puro con Weston e Blanchard

Umbria Jazz Winter si è concessa ieri una serata di puro jazz, di quelle che una volta erano la norma nei festival specializzati e oggi sono sempre più rare. Tanto più, se si riesce a tenere fuori dalla porta la banalità, come è accaduto per il "piano solo" di Randy Weston ed il nuovo sestetto di Terence Blanchard

Cultura

Umbria Jazz Winter si è concessa ieri una serata di puro jazz, di quelle che una volta erano la norma nei festival specializzati e oggi sono sempre più rare. Tanto più, se si riesce a tenere fuori dalla porta la banalità, come è accaduto per il "piano solo" di Randy Weston ed il nuovo sestetto di Terence Blanchard. Weston va verso gli 80 ed è diventato un personaggio di culto del jazz moderno, complice anche la volontaria autoemarginazione che lo ha portato a vivere a lungo fuori dall' America, sia in Africa sia in Europa. Se questa scelta di chiamarsi fuori dagli ambienti più "normali" del jazz in un primo tempo lo ha penalizzato in termini di popolarità e successo commerciale, oggi lo rende un caso a sé stante fra gli ultimi grandi vecchi rimasti e ne fa un outsider avulso da ogni tentazione di conformismo. Il piano solo è una sua specialità, come si è visto anche ad Orvieto. Nelle due lunghe suite ha mescolato proprie composizioni con standard di Ellington, Parker e Gillespie, offrendo in ogni caso un approccio originale alla tastiera. Nella sua musica c'é una forte scansione ritmica e a tratti anche una gioiosa cantabilità: nella prima è evidente l'influenza del pianismo asciutto di Monk, nella seconda si rintraccia facilmente l'ispirazione africana che può ricordare un altro atipico come Dollar Brand. Weston replica questa sera, ma alla testa del suo quintetto. Blanchard, fresco di contratto Blue Note, ha portato il suo recente sestetto, ma il concerto ha rischiato grosso per il mancato arrivo del batterista, Kendrick Scott, vittima di una improvvisa malattia. Per fortuna a Orvieto c'é il mago Horacio "El Negro" Hernandez, che suona ogni notte con la sua band latina, e che si è prestato (magnificamente) alla sostituzione. La musica di Blanchard è sostanzialmente straight ahead, ma non sa del micidiale già sentito che penalizza spesso questo approccio convenzionale al jazz senza se e senza ma. Un pò perché il trombettista di New Orleans è un ottimo compositore (al suo attivo, belle colonne sonore per Spike Lee), un pò perché sa scegliere i musicisti (occhio al pianista Aaron Parks e al chitarrista del Benin Lionel Loueke) il prodotto denuncia freschezza e si lascia seguire con attenzione. Da parte sua, Blanchard ci mette un suono terso ed un fraseggio emotivamente coinvolgente, che forse talvolta si desidererebbe soltanto più asciutto e meno "lavorato". Un piccolo prezzo, il narcisismo, da pagare a chi suona bene e lo sa.

Pubblicato il: 29/12/2003

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