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Abbattiamo il 'Casermone'

Un articolo per aiutare a ragionare sulla città segnalato da un amico di Orvieto. Con il consiglio di volare alti, lontano dalle polemiche, vicino alle cose ed alla gente

Società

Suggeriamo ai nostri "naviganti" la lettura dell'articolo che segue, opera di Luigi Prestinenza Puglisi. Ci è stato segnalatoda un amico interessato alla città ed a ragionare sul suo avvenire tentando un salto di qualità, un volo più alto, di quelli che consentono di vedere con la prospettiva adeguata, lontani dalla bagarre politica e dalle strategie preelettorali, ma vicini alle cose ed alla gente. In forma provocatoria, tra il serio ed il faceto, l'"amico" suggerisce come possibilità da valutare quella i demolire il casermone e ripristinare la "vigna grande" che lo precedeva, santuario del prodotto principe della nostra agricoltura, il vino. Un idea da tenere presente. Sarebbe davvero uno scoop mondiale.

Tradizione e architettura moderna nei centri storici
di Luigi Prestinenza Puglisi
Viviamo tempi duri, anzi durissimi. Le Soprintendenze stanno mummificando i centri storici trasformandoli in piccole Disneyland, supportate da un'opinione pubblica sempre più reazionaria e ipocritamente recalcitrante rispetto a qualsiasi innovazione visibile.
Cosa fare, allora? Ecco di seguito alcuni punti, scritti in ordine sparso che possono servire come traccia di discussione.

1: valore funzionale. In un periodo dove la cosmesi domina, occorre rivendicare la trasformazione effettiva dell'ambiente. Realizzare piazze senza parcheggi sotterranei non serve a nulla. Ricostruire musei che vengono visitati da poche centinaia di persone non ha senso. Davanti alla desolante tristezza dei lampioncini aggiunti dall'assessore di turno dovremmo richiedere più progettualità. La stessa che, per esempio, a suo tempo in Francia ha permesso di rimettere le mani al Louvre o alle collezioni dell'Ottocento conservate al Museo d'Orsay. Di fronte all'intelligenza del programma funzionale, anche architetture mediocri o pessime - la piramide di Pei o i mortificanti vani della Aulenti - acquistano una loro dignità. Che senso ha, infatti, sottolineare, sia pure a ragione, che il Louvre è stato rovesciato e il suo ingresso posto nel retrobottega, di fronte all'intelligenza di un programma così forte di riorganizzazione di un museo per i bisogni di massa del nuovo secolo? Oppure criticare la Gare d'Orsay che è diventato il più importante museo dell'Ottocento? Insomma: finiamola con le dispute su aspetti periferici e a volte marginali, per ritornare alla centralità dei programmi.
Programmi innovativi che anche i piccoli centri devono immaginare. Vorrei, in proposito citare un intervento di Vincenzo Latina a Siracusa, che eliminando incrostazioni e superfetazioni dell'edilizia esistente, liberando cortili e restituendoli alla fruizione pubblica, ritrova una strada che collega la parte alta di Ortigia con il mare e in tal modo arricchisce il nucleo storico di nuove relazioni urbane. Del progetto condivido in parte alcuni esiti formali, ma l'idea urbanistica è talmente efficace che non può non farci riflettere.

2: basta con la mummificazione. Conservare le scorze non serve. L'architettura non è solo massa edilizia ma complessa interrelazione tra persona, ambiente e costruzione. Ridurla a un gioco di prospetti, ambienti e volumi è un errore simile a quello dell'imbalsamatore che crede che una persona sia un insieme di parti anatomiche e non la vita che lo sostiene e caratterizza . Provate a ridisegnare a Roma una nuova mappa simile a quella del Nolli, cioè con evidenziati gli spazi pubblici coperti o scoperti. Oggi dovreste levare le navate delle chiese e mettere gli spazi cavi dei negozi. Capireste che la struttura urbana del centro storico è definitivamente cambiata, nonostante le ansie conservative di curatori e soprintendenze. O voi credete veramente che la San Gimignano di adesso, la Assisi di adesso, la Orvieto di adesso, nei loro usi attuali, abbiano qualche assonanza con i loro corrispettivi medioevali?

3:evitare i presepi. E' ipocrita chi vuole mascherare il vero proponendo della realtà immagini false e consolatorie. Chi nasconde i procedimenti costruttivi. Chi crede che basta mettere un segno falso per rifarsi al passato. Osservate lampioni, cestini, edicole. Alludono a un tempo che non è mai stato. Un presepe che simula una storia mai avvenuta, un tempo che è solo la proiezione del voler essere: dove non c'erano tensioni e tutto era ordinato e pulito.

4: levare piuttosto che mettere. Se non si finirà mai di parlar male delle Soprintendenze, ciò non toglie che molti architetti intendano la libertà di espressione come un lasciapassare per dare libero corso a un ego straripante, incurante di qualunque valore preesistente. Bisogna riconoscere che molte volte la cosa giusta è fare poco, togliere piuttosto che aggiungere. Dobbiamo acquisire dal mondo dell'arte una consapevolezza meno oggettuale, capire che un intervento efficace può ridursi a pochi gesti, spesso sottrattivi.

5: non disegnare. Principio che deriva dal precedente. Osservate la gran parte delle piazze recentemente progettate dagli architetti e non potete non notare un eccesso di segni. Dettagli inutili, pavimentazioni eccessivamente arzigogolate. Troppo spesso il disegno è l'arma spuntata alla quale ricorre chi non è in grado di agire in altro modo. Segno di impotenza piuttosto che di trasformazione.

6: non costruire per l'eterno. Perché fare polemiche infinite su progetti, magari non felici, ma certo non peggiori di ciò che si proponevano di modificare? Il ponte di Cellini a Roma, la tettoia di Isozaki a Firenze, il museo di Meier, sempre a Roma. E poi le recenti polemiche sugli interventi di De Carlo e Gehry Non si tratta di lotte per l'ultima spiaggia. Un progetto lo si dovrebbe valutare nel tempo. Teniamoli per venti, trent'anni e poi decidiamo se conservarli o meno per altrettanti.

7: valutare il luogo. Non tutti i luoghi sono uguali. Dire "centro storico " significa poco e nulla. Certi ambienti hanno valore inestimabile, altri meno, altri nessuno. E' sciocco pensare di conservare gli errori del passato solo perché sono stati. Per non farne altri, occorre però chiamare i migliori progettisti del momento - che non sono necessariamente i più famosi - valutandoli attraverso concorsi. Corollario: più il luogo è delicato, più l'architetto deve essere bravo e l'intervento consapevole, quindi tolto di mano alle strutture burocratiche.

8: stratificare. La storia è sovrapposizione di eventi. Aspetti anche contraddittori purché dotati di senso sono un valore. La stratificazione permette di leggere l'antico senza falsificarlo, di affiancargli il moderno senza renderlo perenne. Lo si diceva prima, se tra trent'anni ci accorgeremo che ci siamo sbagliati, si tornerà indietro. L'errore deve essere considerato una possibilità del gioco e quindi non è lecito proporre interventi irreversibili. Su questi principi mi sembra che sia da recuperare la filosofia di restauro dell'indimenticabile Franco Minissi, oggi colpevolmente accantonata. E anche una brillante storia italiana che va dal museo di Castelvecchio di Carlo Scarpa alla manica lunga del Castello di Rivoli di Andrea Bruno, con protagonisti del calibro di Albini e Canali.

9: fine della politica del contenitore. Non tutto può contenere tutto. Edifici incompatibili con qualsiasi norma e standard sono il lascito di una politica che ha voluto conservare edilizia mediocre a qualsiasi costo. Occorre avere il coraggio di non accanirsi sui cadaveri, proponendo impossibili usi per pessimi edifici. Anche se con tutte le cautele del caso - cfr. quanto detto a proposito della reversibilità degli errori - dovremmo avere anche il coraggio di abbattere e ricostruire o di abbattere e basta. Corollario: controllare i costi. Restauri di decorazioni di scarso valore bruciano miliardi. Aveva senso riprendere tutte le mediocri decorazioni ottocentesche dell'Acquario di Roma quando con una bella imbiancata si sarebbe risolto il problema (se si voleva essere pignoli: si poteva salvare qualche campo e il resto lasciarlo alla cura di futuri archeologi)?

10:lavorare sull'immateriale. Uno spazio urbano lo si trasforma più con un mutamento di destinazione d'uso che con cospicui interventi edilizi. La pedonalizzazione di una strada, l'immissione di un bar in una piazza, le bancarelle e le attività di commercio parallele a quelle ufficiali, cambiano sino a stravolgerli, i connotati di un luogo. Non è esagerato affermare che la vita dei centri storici, in bene e in male, è stata resa possibile proprio dai cambiamenti funzionali che sono scappati di mano ai nostri conservatori. Riuscire a gestirli o indirizzarli, sia pure attraverso politiche intelligenti e non vincolative, sarà una delle sfide dei prossimi anni.

11: evitare il finto provvisorio. Decine di edifici sono deturpati da falsi interventi a carattere provvisorio che dureranno per secoli. Tra questi: scale di sicurezza, scivoli per handicappati, transenne. Ci rendiamo conto che si tratta di interventi funzionalmente essenziali che si sono potuti fare solo grazie all'ipocrita salvacondotto del provvisorio. Oggi è bene smascherarlo e porsi obiettivi più qualificati. Reversibilità dell'intervento non vuol dire finto provvisorio.

12: non feticizzare l'esistente. Il feticismo porta all'esaltazione dell'oggetto indipendentemente dalla funzione. Alla riduzione a opera d'arte anche di ciò che non lo è. Da qui il prevalere della funzione contemplativa, la messa in custodia, la museificazione, la paura del contatto. Con il risultato che i monumenti sono isolati in gabbia, strappati alla vita urbana. Dimenticando che la gran parte dei reperti può, senza alcun danno, essere oggetto di ordinaria e straordinaria manutenzione e che comunque la salvaguardia di un mattone antico o di un gradino di travertino non può avvenire a scapito del suo uso.

13:il parassitismo. Il centro storico non può vivere a spese della restante città, scaricando su questa i propri problemi. Non ha senso che esclusivamente nel centro trovino luogo le attività politiche e di rappresentanza. Non può diventare un'isola di evasione per politici pigri, istituzioni megalomani, privilegiati d'ogni sorta. Si noti, per tutti, in che modo le istituzioni pubbliche, Camera, Senato, Ministeri hanno deturpato il centro storico di Roma con restauri pseudo-storicistici ai limiti dell'indecenza, carichi urbanistici insopportabili, facendo passare l'ottenimento di benefici per un servizio ai cittadini e contribuendo a mandare a monte il centro direzionale orientale. Si osservi, per inciso, che quasi tutti i deputati hanno abitazione nel centro storico: casa e bottega.
Nei piccoli centri il parassitismo avviene quando il nucleo storico diventa l'unica immagine riconosciuta della città. Vi si inseriscono tutte le attività di pregio, avendo cura di sottrarle alla periferia ridotta a dormitorio. A San Marino , come ha ben documentato la mostra USE, appena si fa notte, il centro storico si spopola. Nella quasi generalità, le amministrazioni dei comuni italiani, invece di creare città complesse, scelgono la strada più idiota: valorizzare turisticamente i centri storici sovrappopolandoli di alberghi, ristoranti tipici, negozi tipici , centri congressuali, sedi dell'attività municipale, svuotando di funzioni pregiate il resto della città.

14: evitare mimesi e citazioni. Inutile discutere su questo principio teorizzato anche da critici non in odore di eterodossia quale Cesare Brandi. Al massimo è lecito utilizzare uno storicismo di comodo quale grimaldello per ottenere permessi e prendere in giro i conservatori: come ha fatto -speriamo con ironia- Renzo Piano che ha dichiarato che i mouse dell'auditorium erano rivestiti in piombo per ricordare le antiche cupole romane. In genere queste affermazioni passano: infatti coloro che custodiscono la storia centimetro per centimetro e bazzicano per le accademie, di regola, sono coloro che la conoscono meno. Desidererei, tuttavia, sottolineare due interventi coraggiosi e intelligenti, affidati dalle Soprintendenze a progettisti esterni. Il primo ai mercati di Traiano a Roma, opera di Riccardo d'Aquino e Luigi Franciosini e di Nemesi, l'altro in una piazza di Cosenza opera di Marcello Guido. Pur nella diversità di approccio, sulla quale credo debba discutersi criticamente per valutare se e quando è opportuno un approccio più o meno invasivo, dimostrano che esiste una speranza, che ancora c'è un barlume di vita all'interno delle strutture preposte alla tutela del nostro patrimonio.

15:combattere per i principi. Bisogna far valere la propria integrità professionale. Abbandonare un progetto valido e coraggioso solo perché tarda a ottenere il nulla osta, da parte di Sovrintendenze sempre più conservatrici e riluttanti, è una pratica che alla lunga ci si ritorcerà contro, conferendo a chi ha potere di vincolo una influenza enorme, spropositata rispetto alla sua effettiva capacità propositiva. Conosco progettisti che hanno tenuto duro, attivando tutti gli strumenti legali per ottenere tutela dagli abusi di coloro che volevano imporre logiche scioccamente conservative, e alla fine l'hanno vinta. Dicono gli americani: if a principle is worth having, it's worth fighting for. Se un principio ha valore, allora ha valore lottare per sostenerlo.

Pubblicato il: 14/10/2003

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