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Fausto Cerulli presenta 'La rosa e l'ortica' di Alessandra Carnevali

Il giallo della scrittrice orvietana raccontato  da Cerulli "come si scrive di una questione seria di famiglia"

di Fausto Cerulli

 

Mi trovo a recensire ancora una volta un'opera letteraria di Alessandra Carnevali, dopo aver parlato di un suo piccolo libro di poesie che avrebbe meritato maggiore attenzione, se non altro in questa città che si entusiasma per la Tamaro, benedetta da Dio, e per Rosa Matteucci, che almeno con Dio non ha molta confidenza. Questa volta Alessandra si è addentrata nella narrativa gialla, si è vestita da donna commissario, ed ha risolto una vicenda con tre morti ammazzati. Un giallo è un giallo, e dunque non vi dico come finisce. Ma voglio dirvi come si svolge, in quale atmosfera, con quale finezza di ironia.  Adalgisa è il commissario protagonista, e già il nome ti butta là un pizzico di sarcasmo volontariamente involontario. L'Adalgisa, dunque, dopo una esperienza nella Napoli di camorra, vista in un passaggio sottile e delicato, quasi come un incidente di percorso per Napoli e per l'Adalgisa, decide di tornare al suo paese natio. Lo fa con sofferenza, le pesa incontrare la solita gente, e quasi spira in questo l'aria snob della Matteucci, che non riesce a scrollarsi il blasone, e prova un leggero disprezzo per i villani ( e penso alla "Vendetta del Villano" di PierLuigi Leoni). Ma Alessandra ci mette un guizzo della sua micidiale ironia; si pensi alle pagine dedicate al mercato dell'usato, alla minuziosa descrizione delle donne che si accapigliano intorno alle bancarelle, ed è tutto un gioco di mercato, tra il medievale e il futurista. Una pennellata da artista; e mi ritorna in mente un certo Gadda, e se ci penso bene anche quel nome, Adalgisa, ha un sapore gaddiano. La commissaria si muove tra cadaveri in crescita numerica, partendo da un suicidio non suicidio. Ma ti dà l'impressione che di quei morti ammazzati non se ne curi troppo: ovviamente è pagata per cercare l'assassino o l' assassina o gli assassini, ma la scrittrice ha altro per la penna. Provate a leggere la descrizione del ritrovamento della donna che si è suicidata e poi no; un foro nella fronte, ma quello che ti attira è la descrizione minuziosa dell'abbigliamento della morta: e ci senti una ironia feroce in quell'indugiare sui colori dei vestiti, ben accostati, e della borsetta e delle scarpe. Il cadavere è un oggetto qualsiasi, quello che conta è come sta vestito: Alessandra non prende sul serio la morte, si mette nei panni dell'Adalgisa, commissaria che magari vorrebbe essere una modella in passerella. Ad Alessandra interessano i personaggi di contorno, descritti con meticolosa minuzia, del genere che da una piega del viso capisci l'anima. E poi quella irresistibile apparizione che è la poliziotta Monica Bellucci, che per via di quel nome viene perseguitata dai curiosi; e lei che sa che non la vedrà mai, come fosse Babbo Natale: anzi no, anzi la poliziotta ha visto veramente Babbo  Natale o chi per lui. E vi consiglio di leggere attentamente l'episodio, con la ragazza che scastagna le castagne e sbircia dalla finestra: un bozzetto tenerissimo e crudele, una passata di prosa con la P maiuscola. Un giallo senza giallo, nonostante i morti e il finale a sorpresa: quello che conta è l'atmosfera disincantata, l'attenzione alle atmosfere del paesetto, ché i morti ammazzati ci stanno per pretesto. La leggerezza con cui Alessandra affronta un genere letterario senza volersi veramente confrontare con esso, la dice lunga sulle intenzioni vere della scrittrice; che vuole divertirsi e divertire, che inciampa quasi nei cadaveri come in sassi scagliati da una sorte distratta e che gioca a giocare. In genere, di un libro giallo, si dice che lo si legge di un fiato. Insisto a dire che il giallo di Alessandra Carnevali, proprio per essere insieme un giallo e una caricatura di un giallo e una caricatura di una caricatura, diventa una sorta di apologo, quasi uno sberleffo alla Sciascia. Si legge di un fiato, ma dopo si rilegge, e dopo ci si ripensa, e dopo ancora puoi dargli mille sensi e mille nonsensi. Un gioco di massacri, ma non un gioco al massacro. Il titolo dice tutto: la rosa e l'ortica; dove nella rosa io leggo la leggerezza e la maestria, e nell'ortica la voglia di pungere, ma senza fare male.

A lettura finita ti resta nella bocca della mente un retrogusto amarognolo. L'Adalgisa ritrova il suo moroso, il colpevole trova la giusta o ingiusta punizione. E noi abbiamo trovato un libro scritto a più strati, come una rosa da sfogliare, o un'ortica da toccare leggermente, quasi a carezzarla per non esserne punti. Ho citato Gadda, ed ho citato Sciascia: ma sotto sotto o sopra sopra avrei dovuto citare anche Federico Tozzi, il più grande e più sconosciuto narratore italiano del secolo scorso. Ho fatto il mio dovere di recensore, avrei voluto fare magari anche il censore, e non avrebbe stonato, in un racconto anche di corna di paese. Ma in realtà ho fatto soltanto il mio piacere, di aver letto "La Rosa e l'ortica", e di averne scritto come si scrive di una questione seria di famiglia. Non credo che Alessandra, con il suo giallo, venderà molte copie al prossimo festival dell'horror orvietano. Credo che meriti premio migliore, e di grana più fina.

Pubblicato il: 03/03/2010

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