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Ciao Giulietto

Ricordo di Giulio Ranchino, amorevole e appassionato, di Fausto Cerulli. C'è quanto avremmo voluto dire noi, ci sono anche i nostri ricordi. Condoglianze di orvietosi alla famiglia

di Fausto Cerulli

Tutti ti chiamavano il professore. Noi ti chiamavamo Giulietto, anche se la tua mole contrastava con il diminutivo affettuoso. Ti conoscevo dai tempi del  Liceo, ricordo quella volta che ai tempi della polemica per Trieste italiana- i giovani di oggi non ricorderanno quell'ultimo strascico dell'unità d'Italia- tu decidesti una sorta autonoma ed autogestita manifestazione di protesta, e poiché non eravamo tutti d'accordo, tu stendesti un tricolore sulla scala esterna del Liceo, e in posizione di braccia conserte, disse voglio vedere chi avrà il coraggio di calpestare la bandiera italiana. Ovviamente nessun professore si azzardò ad accettare la sfida, e noi studenti, sia che fossimo d'accordo o non lo fossimo, fummo contenti di quella vacanza gradita ed inaspettata. Poi ti rividi in divisa di ufficiale dei carabinieri, e ti persi di vista quando facevi il  professore di matematica. Il caso ha voluto che mi trovassi a comprar casa proprio a Porano, proprio sotto la sua casa grande ed accogliente, e piena dischi di musica jazz, che era la tua passione. Una passione strana per uno come te che si dichiarava fascista, ed il fascismo non fu mai tenero con la musica jazz. Erano i tuoi contrasti, Giulietto. Conoscevi le mie idee, diciamole di estrema sinistra, e cercavi di convincermi che gli estremi si toccano, e che dunque qualche cosa ci legava. Conoscevi la storia del fascismo a modo tuo, ed era fascista a modo tuo. Sei stato anche consigliere provinciale del MSI. E  nessuno ha mai trovato qualcosa da ridire sul tuo fare politica. Non la facevi per ambizione o per tornaconto, ma per passione. Per questo la tua esperienza di politica spoliticata è durata poco: in certi ambienti l'onestà, la correttezza, la mancanza di fanatismo sono malviste, ed io ne so qualcosa. Ricordiamo sempre, io e Maria, quella volta che venne un tuo bracciante a fare i conti, ti chiese una certa somma, tu gli facesti notare che aveva chiesto troppo poco, che aveva sbagliato in difetto. E gli pagasti il giusto. Io ti voglio ricordare così, persona giusta, facile all'ira e facile al sorriso riconciliante. E poi ricordo le serate alla Bubbola, il tuo casale preferito ai limiti di Porano. Passavamo le ore su una panchina, eri pessimista sulle sorti del mondo; ti sentivi tradito, dicevi che ti avevano sciupato gli ideali, i nuovi arrivati. E ti ostinavi a dirmi che anche io vivevo quella sorte. E forse era vero, forse è vero. Sei stato molto amato, molto invidiato; e dall'invidia all'odio il passo è breve. Ma tu sei stato sempre superiore, alle invidie, agli odi meschini, ai pettegolezzi di cortile. Ricordo l'ultima  occasione in cui abbiamo avuto modo di stare insieme da soli: passavo per caso dinanzi alla tua grande casa, eri seduto, come facevi spesso, sugli scalini esterni, e mi chiedesti di accompagnarti all'Ospedale per via di certe analisi che ti erano state comandate, e che tu accettavi, sia pure con il tuo fastidio ribelle. Al ritorno, invece di puntare dritto su Porano, prendesti con la tua auto una strada secondaria, e ci addentrammo nei campi. Giungemmo alla tua campagna, era una bella giornata di settembre: mi mostrasti le vigne e gli uliveti, quasi li chiamavi per nome, era come se me li volessi presentare, amico ad amici. Poi con la tua saggia foga polemica, iniziasti una tirata contro gli Agrari imbroglioni, quelli che si beccano i contributi dell'Europa per il sostegno all'agricoltura, e poi utilizzano i soldi per tutto meno che per sistemare i terreni. Tu eri orgoglioso di fare tutto da solo, insieme a tuo figlio Eugenio: curavate ogni centimetro di terra, con amore e passione, e la terra, che ha buona memoria, vi ricambiava con altrettanto amore, dandovi vino buono ed olio da premio. Lo ammetto, qualche volta era difficile discutere con te; non perché tu volessi avere sempre ragione, ma perché pensavi di averla. E qualche volta magari alzavi anche la voce, poi distendevi il volto in un sorriso dolcissimo, di quelli che vengono dall'anima. E mi dicevi "scusami, Fausto", forse non riesco a spiegarmi," Come se volessi dirmi che se ti accaloravi, lo faceva soltanto per passione, e non per sottovalutare l'interlocutore di turno. Sei stato un protagonista della vita di Porano, tutti ti conoscevano, anche se tu non ti esponevi: qualche volta ti ho pensato come un Andreotti bonario, che tesseva le fila della politica locale senza darlo a vedere. Poi ho capito che mano a mano ti stavi distaccando dalla politica; deluso dai tuoi vecchi compagni di partito, convinto che fossero soltanto arrampicatori di poltrone. E non ti si vedeva in giro: stavi nella tua grande casa, con mille cellulari sempre in azione; volevi sapere tutto di quello che accadeva, anche se non volevi influire sulle beghe locali. Ricordo che, quando parlavamo di politica, mi rimproveravi dolcemente di essermi fatto tagliare fuori, mi dicevi che avrei dovuto lottare di più per le mie idee, che erano diverse dalle tue, e nello stesso tempo simili, per il fatto di essere idee e non progetti finanziari. E concludevi sempre ponendo l'accento su una qualche nostra affinità di fondo. Ed aggiungevi che non eravamo fatti per la politica, per questa politica impolitica, e mi classificavi tra i perdenti con onore e per onore. Tutto sommato, in politica, anche tu sei stato un perdente: non eri uomo da compromessi, e mi facevi l'onore di considerarmi, in questo, simile a te. Ma tu sei stato un vincente in altro campo: una famiglia che ti adorava, anche se qualche volta provava soggezione per te. Eri, quanto alla forma, una specie di padre padrone: ma quanto alla sostanza eri quello che una volta si chiamava il pater familias, il punto di riferimento, il centro naturale. E di una tua qualità, in questo momento di tristezza, voglio darti atto: la tolleranza, la capacità di accettare le idee degli altri, anche se contrarie alle tue, purché fossero idee e non pasticci. Pretendevi, ed in questo eri inflessibile, la buona fede, il disinteresse, l'attaccamento a un ideale, quale che fosse. Ci mancherai, amico Giulio. Eri, anzi voglio dire sei, una delle poche persone su cui si può fare affidamento: anche quando, per via delle tue mascelle dure, avevi un qualcosa di mussoliniano, il tuo sorriso, che ti faceva quasi chiudere gli occhi per venire fuori dal profondo del cuore, era un sorriso fanciullo. Il sorriso, sempre più raro, dell'onesto. Forse al tuo funerale verranno molti antichi tuoi camerati, che faranno finta di non sapere che li avevi serenamente ripudiati: ma mi piace pensare che tu sorrida ancora, vedendo tra la gente che ti ossequia dopo morto, un comunista come me: che, se avesse potuto, ti avrebbe fatto Podestà.  Mandando al diavolo questa finta democrazia; che ci faceva tristezza e quasi pena. Sai, Giulio, penso che tutto sommato dobbiamo essere contenti di noi: abbiamo fatto il nostro dovere, tu anche quello di padre: e non lasciamo debiti, anzi possiamo avanzare crediti d'onore. Mi piacerebbe che al tuo funerale qualcuno si mettesse a suonare una cornetta a ritmo di jazz;  quella musica che ti piaceva tanto, e ti faceva moderno, scanzonato. Ciao, Giulio, arrivederci.

Pubblicato il: 24/01/2010

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