Archivio Orvietosi Archivio anni 2002-2012: NOTIZIE
NOTIZIE CORSIVI

Non si può attendere

di Angelo Ranchino

Sono giorni che leggo corsivi sulle più varie testate giornalistiche e su alcuni siti web relativi a un contrasto nel centrodestra in merito alle candidature a sindaco, con i correlativi strascichi di variegate opinioni manifestate da attenti lettori che parteggiano per l'una o l'altra fazione, nei quali è stato ripetutamente avanzato il mio nominativo tra quelli dei probabili candidati in lizza per le prossime elezioni amministrative.

Ho appreso dunque come questo nominativo abbia causato disequilibri, incomprensioni o reazioni di vario genere negli esponenti dell'opposizione.

Ho altresì letto commenti e suggerimenti, a volte anche assennati, provenienti da esponenti delle politiche cose orvietane, da arguti intellettuali, o da opinionisti che, in forza di capacità analitiche provenienti da non specificate fonti, consigliano condotte, comportamenti, indirizzi, spiegando cosa sia meglio per il paese, e soprattutto cosa sia meglio per me.

Credo necessario pertanto chiarire quale sia il mio reale pensiero, invece di lasciare che la relativa comunicazione nei confronti di tutti coloro che ne possano essere vagamente interessati venga filtrata  dall'inventiva o dalla valutazione personale di tutti quelli che ritengono di averlo già capito, così da sentirsi autorizzati a riferirlo a chiunque, pur a modo loro, e senza vagliarne la rispondenza a verità.

 

Molti, come me, sono nati, si sono formati e, per vari motivi, hanno deciso di continuare a vivere nella nostra città, pur avendo anche possibilità di allontanarsi; hanno studiato nelle Università, hanno avuto la fortuna di visitare il mondo, hanno appreso e continuano ad apprendere quanto più possibile dagli altri luoghi e dalle altre persone, ma hanno comunque fatto sempre ritorno.

Molti altri si sono innamorati del nostro paese, delle sue strade, delle sue piazze, della sua gente e soprattutto del modo in cui la vita vi scorre, scegliendo di stabilirsi ad Orvieto, vedendo qui la possibilità di condurre una vita di una qualità altrove irrealizzabile.

Tutti noi abbiamo dunque eletto Orvieto come centro della nostra esistenza; sentiamo la città, un luogo nostro, la nostra casa, poiché al suo interno abbiamo vissuto esperienze, abbiamo accresciuto la nostra preparazione, abbiamo lavorato, abbiamo sentito sorgere amori o abbiamo perso affetti, abbiamo visto nascere e crescere i nostri figli e abbiamo infine immaginato, e forse sognato, che anche loro potessero qui avere un futuro, in una città magari migliore di quanto non lo sia stata per noi.

Molti hanno sperato di poter dare un contributo al miglioramento, impegnandosi nel sociale, nelle associazioni umanitarie, nel volontariato, o anche interpretando il proprio mestiere o la propria professione nel modo migliore, certi che anche tale eccellenza, come testimonianza di una cittadinanza sana e produttiva, possa concorrere a migliorare il tessuto sociale del quale la città è pervasa, e dunque al bene comune.

Alcuni hanno anche creduto che, esercitando i propri diritti di elettore, avrebbero potuto influire sulla gestione della cosa pubblica, investendo i soggetti più capaci, così da produrre una migliore rappresentanza del popolo nelle istituzioni e di conseguenza un' amministrazione quanto più assennata della città per il bene comune, ed in definitiva per il bene di ciascuno di noi.

 

Pochi invece (direi pochissimi), dinanzi alla presa di coscienza che si possa e si debba fare molto di più per Orvieto, per gli Orvietani, per il bene di chi ci seguirà, magari per i nostri figli, hanno ritenuto di scegliere di "fare".

Se vi è un vizio criticabile nell'Orvietano, che tutti ci riconosciamo, è quello di abbandonarsi ad una facile critica, di additare il vicino o il conoscente e di metterne in luce tutte le negatività, dimenticando i lati positivi e soprattutto dimenticando che, dei medesimi vizi e delle stesse debolezze, siamo anche noi egualmente pervasi.

 

La chiave di lettura del problema relativo all'amministrazione della nostra città è, in fondo, in questo unico atteggiamento: ciascuno di noi ha la lucidità di operare una oggettiva analisi in merito al gravissimo stato in cui la città versa, di indicare responsabili, di sottolineare mancanze, di censurare comportamenti.

 

 

Anche l'opposizione, che per anni ha svolto l'encomiabile ruolo di controllo, denunzia, informazione ai cittadini e stimolo dell'attività amministrativa, sembra maggiormente pervasa da questo atteggiamento.

 

Pochissimi invece fanno ricorso alle loro risorse per costruire alternative.

In ciascun consesso in cui mi sono trovato ho spessissimo sentito benpensanti, affermati imprenditori, stimati professionisti, intellettuali ed altri censurare senza appello le scelte amministrative operate, additare il degrado della città, criticare la caduta civile, culturale, sociale del nostro paese; potrei dire mai (o quasi) ho visto persone dichiararsi pronte a confermare la propria disponibilità per rivestire un ruolo attivo nella costruzione di un futuro diverso.

Per costruire è necessario prima di tutto immaginare e non solo criticare.

Per costruire, poi, è necessario agire.

E per agire per il miglioramento della nostra città, concorrendo all'attività amministrativa, bisogna uscire dai propri ruoli, sacrificare le proprie attività, esporsi dinanzi agli altri ed anche, a volte, "contro" gli altri, quegli altri che detengono lo scettro del potere politico, amministrativo e imprenditoriale, con il quale, in un modo o nell'altro, ciascuno di noi deve fare i conti per sopravvivere.

Per costruire ad Orvieto, in definitiva, ci vuole coraggio.

 

E'questo che, nonostante tutto, alcuni Orvietani hanno intenzione di fare.

E' questa inquietudine che mi muove.

Ritengo di aver visto abbastanza e di aver tollerato, fin troppo.

Ritengo che la città sia pronta per prescindere, finalmente, dai colori politici che hanno condotto ad un immobilismo utracinquantennale.

Penso che si possa parlare direttamente, tra esseri umani, di futuro, senza che ciò sia condizionato da ideologie politiche che, la storia di questi giorni lo dimostra, hanno ormai lasciato il passo e manifestano tutti i loro limiti.

Anzi, ritengo che il variegato concorso delle esperienze politiche, culturali, ideologiche di ciascuno costituisca l'arricchimento del gruppo, cosicchè le decisioni comuni siano frutto della valutazione e della sintesi di quanti maggiori punti di vista.

 

Il percorso è ambizioso e non solo possibile; forse altamente probabile.

C'è bisogno che ciascuno di noi si interroghi e che, dismesse le pantofole della facile critica, si faccia carico dell'onere e del coraggio di agire nell'interesse della città e si metta a disposizione del bene comune; ed ognuno può giocare il proprio ruolo, dallo studente al pensionato, in quanto foriero di un punto di vista che, altrimenti, sarebbe difficilmente comprensibile da chi non viva la medesima condizione.

 

L'opposizione (non tutta, per la verità), dinanzi a questo, esita.

C'è chi avverte come nuova fresca linfa vitale il movimento dei cittadini che fremono per "costruire"; chi crede che la voglia di rinnovamento, che nasce forte ed in modo spontaneo, debba essere coltivata, assecondata cosicchè assuma maggiore forza e che tale forza si propaghi anche a chi, storicamente, la volontà di cambiamento ha sempre manifestato; chi intravede che se questa forza sia sufficiente, possa anche trasmettere anticorpi positivi alla parte ammalata della popolazione che, schiava di un cinquantennio di carenza di prospettive, si trova oggi impossibilitata ad immaginare un ruolo diverso, una prospettiva nuova, un futuro libero di crescita del territorio e dei suoi abitanti, che produca finalmente l'emancipazione da un sistema che non ha mai concesso prospettive diverse da sé.

C'è però, ancora e purtroppo, chi pensa che il nuovo, invece di concorrere alla crescita di tutti, metta in pericolo posizioni conquistate con anni di militanza; se l'opposizione tende ad una alternativa all'attuale sistema, tali soggetti è bene che facciano autocritica, riconoscendo che in realtà non fanno opposizione.

C'è poi chi, semplicemente, soffre di gelosia. 

Tali diversi atteggiamenti hanno in se il germe pericoloso della disgregazione, che condurrebbe inevitabilmente ad un indebolimento, in quanto solo una forza unita può aspirare al maggior successo. 

Credo sinceramente che questa inquietudine che scuote dal profondo la coscienza dei cittadini, come si avverte sempre di più in ogni consesso, e da soggetti di tutte le estrazioni sociali e politiche, debba essere incentivata a liberarsi, favorendo le condizioni perchè si esprima.

Il processo è complesso e laborioso perchè necessita di fasi di aggregazione, di confronto, di ideazione ed elaborazione di progetti comuni.

Il processo è anche pericoloso, perchè deve resistere a chi, a vario titolo e per diverse finalità, di appropriazione o di danneggiamento, intende attribuirgli comunque un colore, producendone, alla fine, uno svilimento, in quanto la sua forza è proprio quella di non avere etichette.

Dissento dunque dalle opinioni lette in questi giorni: non si può più attendere.

C'è un che di contraddittorio in certe valutazioni che vengono fatte da chi ha più esperienza (politica) di me.

Ci si deve confrontare con una macchina che, seppure rende evidenti i segni di una ragguardevole età, manifestando all'esterno rumori e scricchiolii ed all'interno gravi cedimenti strutturali, vanta comunque collaudati passati. 

Attendere ancora significa abdicare alla possibilità di rottamare quella macchina che ha dato prova di avere ormai superato da tempo la soglia dei chilometri percorribili.

Attendere significa impedire che le forze di opposizione si costituiscano in modo articolato, trasversale e completo; significa impedire quel laborioso processo di osmosi tra le entità civili e quelle politiche già esistenti, che è l'indefettibile presupposto dell'obiettivo da raggiungere.

Soprattutto attendere significa spegnere le speranze dei cittadini di voler costruire, finalmente, un progetto non relegato all'interno dei simboli di partito che, seppure risorsa ed espressione del pensiero dei cittadini, ne diviene spesso anche il limite, impedendo di confrontarsi tra uomini ed imponendo di parlarsi da avversari.

Attendere significa rinunciare alla possibilità, o forse alla probabilità, di costruire un progetto vincente.

Pubblicato il: 20/01/2009

Torna alle notizie...