Archivio Orvietosi Archivio anni 2002-2012: NOTIZIE
NOTIZIE CORSIVI

Scuola di formazione teologica. Materiale di studio per i gruppi di lavoro

Il 14 febbraio, sala del Governatore, Palazzo dei Sette ad Orvieto, nell'àmbito della Scuola di formazione teologica, dalle 17 alle 19

Il 14 febbraio, sala del Governatore, Palazzo dei Sette ad Orvieto, nell'àmbito della Scuola di formazione teologica, dalle 17 alle 19, saranno realizzati tre gruppi di lavoro.

Di seguito i documenti per approfondire i temi che saranno affrontati

Non vengo a imporre la fede
ma a sollecitare il coraggio per la verità

Magnifico Rettore,
Autorità politiche e civili,
Illustri docenti e personale tecnico amministrativo,
cari giovani studenti!

È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della "Sapienza - Università di Roma" in occasione della inaugurazione dell'anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l'istituzione era alle dirette dipendenze dell'Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo. Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l'impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l'Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell'accoglienza e dell'organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio".

Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l'invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda:  Che cosa può e deve dire un Papa in un'occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell'università "Sapienza", l'antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l'università del Papa, ma oggi è un'università laica con quell'autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all'autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l'università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un'istituzione del genere.

Ritorno alla mia domanda di partenza:  Che cosa può e deve dire il Papa nell'incontro con l'università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi:  Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora:  Qual è la natura e la missione dell'università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all'Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell'intera Chiesa cattolica. La parola "vescovo"-episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante", già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore:  egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all'insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell'insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l'interno della comunità credente. Il Vescovo - il Pastore - è l'uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù - e non soltanto indicata:  Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura - grande o piccola che sia - vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull'insieme dell'umanità. Vediamo oggi con molta chiarezza come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa - le sue crisi e i suoi rinnovamenti - agiscano sull'insieme dell'umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell'umanità.

 Qui, però, emerge subito l'obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale:  Che cosa è la ragione? Come può un'affermazione - soprattutto una norma morale - dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l'altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l'esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell'umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell'umanità come tale - la sapienza delle grandi tradizioni religiose - è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee.

Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l'intera umanità:  in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica.

Ma ora ci si deve chiedere:  E che cosa è l'università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell'università stia nella brama di conoscenza che è propria dell'uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l'interrogarsi di Socrate come l'impulso dal quale è nata l'università occidentale. Penso ad esempio - per menzionare soltanto un testo - alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda:  "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti ... Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b - c). In questa domanda apparentemente poco devota - che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino - i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d'uscita da desideri non appagati; l'hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l'interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell'essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell'essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l'interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell'ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l'università.

È necessario fare un ulteriore passo. L'uomo vuole conoscere - vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia":  il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto - chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere:  la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell'interrogarsi socratico:  Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera:  è questo l'ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell'incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.

Nella teologia medievale c'è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire - una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l'università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell'universitas significava chiaramente che era collocata nell'ambito della razionalità, che l'arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all'ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca:  il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda:  Come s'individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all'essere buono dell'uomo? A questo punto s'impone un salto nel presente:  è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell'uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell'opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell'umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti:  dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono - lo sappiamo - prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all'insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico.
Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato:  Che cos'è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda:  Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d'interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo così alla struttura dell'università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c'erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull'essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà:  essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l'uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda - in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta.

Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall'altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d'Aquino - di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico - di aver messo in luce l'autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s'interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell'università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato:  per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta "Facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull'avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l'idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia:  filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione":  la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all'umanità come indicazione del cammino. Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell'umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un'istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all'interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere  sempre  un  incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi. Ebbene, finora ho solo parlato dell'università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell'università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell'università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti:  innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l'uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all'umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell'uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell'uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato:  come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale - per parlare solo di questo - è oggi che l'uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all'attrattiva dell'utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell'università:  esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione - sollecita della sua presunta purezza - diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa:  se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e - preoccupata della sua laicità - si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.

Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell'università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura  intrinseca  di  questo  ministero  pastorale  è  suo compito  mantenere  desta la sensibilità per la verità; invitare  sempre  di  nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.   

Dal Vaticano, 17 gennaio 2008                       Benedictus XVI

PERSONA E BIOETICA

Laura Palazzani

E' stato rilevato che il concetto filosofico più frequentemente usato nell'ambito della discussione bioetica attuale è il concetto di persona. Molte potrebbero essere le ragioni del "ritorno" del concetto, che ha vissuto una storia travagliata nel pensiero occidentale: una prima ragione è individuabile nella forte carica intuitivamente evocativa e nel generale consenso che si riscontra nell'attribuire una rilevanza morale e giuridica al concetto, che risulta particolarmente adatto a fungere da criterio per la determinazione dei confini di liceità dell'agire tecno-scientifico dell'uomo. Se a ciò si aggiunge la crisi speculativa della nozione, risulta chiara una ragione ulteriore della sua diffusione: l'ambiguità teorica rende per certi aspetti il termine adattabile alle diverse esigenze del pluralismo filosofico, che caratterizza il dibattito bioetico. Se dunque, sulle prime, molti hanno pensato che il concetto di persona potesse essere una sorta di "punto minimo d'intesa" nell'ambito della discussione bioetica, ben presto ci si è resi conto dell'equivocità nell'uso del concetto. Emerge l'importanza di rispondere ad alcuni interrogativi: che cosa è persona? chi è persona? come dobbiamo trattare la persona? Queste le domande ricorrenti nel contesto del dibattito bioetico: non altrettanto ricorrenti, anzi, notevolmente diversificate sono le risposte alle domande. Più precisamente, se tutti sono d'accordo nel considerare la persona come degna sul piano pratico di essere rispettata e tutelata, non tutti sono d'accordo sul modo di intendere, sul piano teoretico, la persona.

Nel contesto della discussione bioetica attuale, è possibile individuare due tendenze opposte sul modo di concepire la persona: una tendenza "riduzionista" di chi argomenta a favore di una separabilità (di principio) e di una separazione (di fatto) del concetto di persona dall'essere umano e la tendenza di chi giustifica una intrinseca identità (di principio e di fatto) tra persona ed essere umano.

            Nel contesto della tendenza riduzionista si assiste ad una teorizzazione della posticipazione dell'inizio della persona rispetto all'inizio della vita dell'essere umano e ad una anticipazione della fine della persona rispetto alla fine della vita umana. Secondo questa prospettiva l'essere bio-geneticamente umano non è persona sin dal momento della fecondazione, bensì lo "diventa" in qualche momento successivo, con la conseguenza che ci sono essere umani che "non" sono persone, o più precisamente, che non lo sono "ancora": specularmente, le stesse teorie hanno ricadute nella considerazione della fine della vita umana, anticipando la fine della persona rispetto alla morte biologica naturale dell'essere umano, con la conseguenza che ci sono alcuni esseri umani che "non sono più" persone. Per quanto riguarda il dibattito sull'embrione, da alcuni il confine della persona è individuato al momento dell'impianto dell'embrione nella parete uterina della madre, inteso quale momento costitutivo della relazione intersoggettiva (nel contesto della filosofia del personalismo dialogico e dell'antropologia della parola); altri riconoscono la persona al momento della formazione del sistema nervoso centrale, condizione di possibilità della percezione del piacere e del dolore (nell'orizzonte di una visione utilitarista della persona che considera quale elemento costitutivo per l'attribuzione dello statuto personale ad un soggetto la capacità di avere interessi); altri ancora ritengono che la persona inizi al momento della formazione della corteccia cerebrale, considerata quale condizione minimale di possibilità per l'esercizio della razionalità, intesa quale carattere costitutivo e irrinunciabile dell'identità umana (nell'ambito della concezione del parallelismo vita-morte cerebrale, che stabilisce un rapporto di specularità tra la definizione di fine e di inizio vita identificata con la cessazione e la rilevazione dell'attività cerebrale e nell'ambito dell'emergentismo, teoria che ritiene che dalla combinazione di parti emrgano qualità nuove). Altre teorie posticipano l'inizio della persona nella fase di vita post-natale,

            Si tratta di teorie riduzioniste e funzionaliste che fanno coincidere, stipulativamente, l'essere della persona con l'esercizio attuale di una determinata capacità o con la presenza delle condizioni per la manifestazione di una certa capacità: ma l'esercizio di una funzione o la presenza delle condizioni per il suo manifestarsi presuppone l'esistenza di un soggetto, che ne è, in ultima analisi, la condizione di possibilità. Semmai la funzione si attualizza quale conseguenza, oltretutto parziale e accidentale, che presuppone ontologicamente, quale precondizione necessaria, l'esistenza di una persona umana come un tutto.

Da una rapida ricognizione critica delle teorie separazioniste in bioetica, emerge indubbiamente un dato che merita una attenta considerazione: la nozione di persona, strappata dalle sue radici, assume oggi nuovi ruoli che ne mettono in pericolo la valenza propria, intuitiva ed originaria. Il concetto di persona elaborato dalla filosofia per caratterizzare l'essere umano, viene oggi usato "contro" l'uomo stesso. Al punto che, dopo i fenomeni della schiavitù, del colonialismo, del razzismo, del nazismo e del maschilismo, ci troviamo ora a dover fronteggiare una nuova forma di discriminazione umana, più sottile e nascosta, perché tocca i casi "di confine": la discriminazione contro gli zigoti, gli embrioni, i feti, e anche contro gli infanti, i bambini, gli handicappati, i cerebrolesi, gli anziani, i comatosi, i malati incurabili. Dopo il faticoso raggiungimento della "fede secolare" nella dignità dell'uomo e nei diritti umani, si dischiudono ora, proprio attraverso un ambiguo uso del concetto di persona in bioetica (all'interno delle teorie riduzioniste), nuove discriminazioni, e precisamente le discriminazione per il grado di sviluppo fisico, psichico e sociale dell'essere umano.

            Emerge l'interrogativo: ha ancora senso usare il concetto di persona in bioetica? Pur riconoscendo indubbiamente la possibilità teorica di prescindere dall'uso del concetto, non si può, al tempo stesso, dimenticare che la nozione di persona è stata proprio teorizzata dalla filosofia occidentale con la precisa finalità di caratterizzare in modo pertinente l'essere umano e di giustificarne la centralità assiologico-normativa. Pertanto, ciò che va eliminato non è tanto l'uso del termine persona tout court, quanto il suo uso vago, incerto e generico. Proprio per combattere questa ambiguità, è indispensabile che lo sforzo speculativo sia orientato alla ri-tematizzazione del concetto nel contesto di una filosofia della persona e dell'umano che sappia rendere ragione dell'identità e della coincidenza tra essere umano e persona.

La definizione filosofica che meglio consente di tematizzare il concetto di persona in senso globale e integrale, identificandolo empiricamente con l'essere umano reale, è la definizione tradizionale, originariamente formulata da Boezio ("rationalis naturae individua substantia"), riformulata in modo più compiuto da Tommaso d'Aquino. Applicando il concetto di sostanza individuale all'uomo, ne risulta che le funzioni che esercita e gli atti che compie non esistono in sé, ma esistono solo come funzioni e attività "di" un individuo umano sostanziale, che ne è il referente unitario e permanente, la condizione ontologica reale. E' la sostanza così intesa che consente di spiegare l'unità (nello spazio) e la permanenza (nel tempo) dell'identità dell'essere umano. La definizione di persona caratterizza ulteriormente l'essere umano in riferimento alla natura razionale. Con l'espressione "natura" si indica, aristotelicamente, ciò che la persona "è" in virtù della "sua nascita" (o, si potrebbe anche dire, in virtù dell'essere stata concepita), dunque per il mero fatto di esistere, di vivere e di appartenere alla specie umana. La presenza di un principio sostanziale consente di riconoscere lo statuto attuale della persona nell'essere umano anche in condizioni di "potenzialità" o di "privazione", ossia di non attuazione, momentanea o permanente di certe funzioni, dovuta all'incompletezza dello sviluppo (nel caso dell'embrione) o alla presenza di fattori, esterni o interni, che ne impediscono la manifestazione.

            Ne consegue che lo zigote, l'embrione, il feto, così come il neonato, o il minore, sono "già" persone, in quanto, pur non essendo ancora manifestate in atto, tutte e al massimo grado le proprietà, sono presenti le condizioni che costituiscono il supporto necessario del processo dinamico ininterrotto che consentirà l'attuazione di tali caratteri: specularmente, sono "ancora" persone il moribondo, l'anziano, il demente, l'handicappato, il soggetto in coma, in quanto, benché i soggetti siano privi di certe proprietà, permane comunque la possibilità intrinseca alla natura.

 

Bibliografia

 

E. Agazzi (a cura di), Bioetica e persona, Franco Angeli, Milano 1993; P. Cattorini, E. D'Orazio, V. Pocar (a cura di), Bioetiche in dialogo. La dignità della vita umana, l'autonomia degli individui, Zadig, Milano 1999; F. D'Agostino, La bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 1998; L. Lombardi vallauri (ed.), Il meritevole di tutela, Giuffrè, Milano 1990; M.B. Mahowald, Person, in W.T. Reich (ed.), Enciclopedia of Bioethics, MacMillan, New York 1995, vol. IV, p. 1934; L. Palazzani, Il concetto di persona tra bioetica e diritto, Giappichelli, Torino 1996; A. Pessina, Bioetica. L'uomo sperimentale, Mondatori, Milano 1999; E. Sgreccia, Manuale di bioetica. Fondamenti ed etica biomedica, Vita e Pensiero, Milano 1994, vol. I; V. Possenti, La bioetica alla ricerca dei principi: la persona, "Medicina e Morale", 1992, 6, pp. 1075-1096.

 

LE PROSPETTIVE DELLA BIOPOLITICA TRA BIOETICA E BIODIRITTo

Laura Palazzani

1. Premessa.

Anche se il termine 'biopolitica' è stato coniato prima delle espressioni 'bioetica' e 'biodiritto' o 'biogiuridica', è solo recentemente (dopo lo sviluppo e la diffusione delle neo-nate discipline, a causa del rapido sviluppo della tecno-scienza biomedica) che ha potenziato ed amplificato il suo significato nella discussione attuale. Si tratta di un termine ambiguo che necessita di un chiarimento filosofico[1]. Chiarire il significato di biopolitica presuppone un chiarimento anche dei significati di bioetica e di biodiritto, oltre che una indagine sulle reciproche interconnessioni.

E' una percezione condivisa che la bioetica ceda il passo al biodiritto e alla biopolitica, a causa dell'esigenza sempre più fortemente avvertita nella società di una regolamentazione pubblica delle pratiche biomediche, conseguenti all'accelerazione inarrestabile del progresso scientifico e tecnologico. Riflettere sui rapporti tra bioetica, biodiritto e biopolitica è indispensabile per comprendere le ragioni di alcuni orientamenti di pensiero che dominano il dibattito oggi, ma anche per cogliere le ripercussioni in ambito applicativo sulle principali questioni sollevate dalle nuove possibilità di intervento e di manipolazione della vita umana.

 

2. La biopolitica come potere (individuale) sulla vita biologica.

Nell'orizzonte di pensiero non-cognitivista (che ritiene che non esista e comunque non sia conoscibile una verità oggettiva in etica, negando la conoscibilità di un 'bene comune') e, conseguentemente, di un pensiero soggettivista (che afferma l'esistenza e la conoscibilità solo del 'bene individuale'), la bioetica si configura come un ambito di riflessione soggettiva ed autoreferenziale sui confini di liceità nella manipolazione della vita (umana e non umana). E' la prospettiva del 'pluralismo bioetico' che, ritenendo la pluralità etica in bioetica inconciliabile e non riducibile ad unità (essendo il bene costitutivamente 'plurale'), afferma non solo la impossibilità o improbabilità teoretica ma anche la non auspicabilità di elaborare una bioetica 'comune' (declinata al singolare) considerata un sapere uniformante, omologante e soffocante rispetto alla originalità, autenticità e creatività individuale. Se il bene è plurale, non possiamo che essere 'stranieri morali' che parlano linguaggi etici diversi e incomprensibili: l''amicizia morale', ossia la condivisione di concezioni del bene e del male, potrebbe esserci, ma solo accidentalmente ed occasionalmente, e comunque all'interno di un gruppo particolare[2].

In questo contesto, il biodiritto si separa dalla bioetica (meglio sarebbe dire dalle bioetiche) esprimendo l'esigenza irrinunciabile di neutralità e neutralizzazione. E' la posizione di chi ritiene, a partire da una sfiducia scettica nella possibilità di identificare e fondare valori comuni in una società pluralistica, che il biodiritto debba astenersi dal prendere posizione (prendere una posizione etica significherebbe privilegiarne una delegittimando indebitamente le altre), limitandosi a proporre la 'tolleranza' come accettazione acritica e sopportazione passiva di qualsivoglia visione etica (ritenuta equivalente, a prescindere dai contenuti che veicola, rispetto a qualsiasi altra). Il biodiritto, quale tecnica neutrale di organizzazione sociale, ha la funzione di garantire la compresenza di ogni visione che si manifesti nella società, assicurando all'individuo la libertà di fare la propria scelta in base ai valori soggettivi e alla convinzione privata, soprattutto sui temi bioetici che riguardano la vita e la morte, la salute e la malattia, il dolore e la sofferenza. Il biodiritto si limita a prendere atto delle diverse scelte, dei diversi desideri e preferenze individuali emergenti dalla società, a tradurli sul piano formale normativo in modo esteriormente e proceduralmente corretto, al fine di garantire pubblicamente la non interferenza rispetto alle scelte individuali, eliminando gli ostacoli che ne impediscono la espressione e amplificando le possibilità di scelta.

Secondo questo paradigma bisogna distinguere tra i "diritti morali" e i "diritti giuridici": i "diritti morali" attengono alla sfera di autonomia in relazione alle scelte bioetiche rispetto alle quali il diritto positivo (ossia il "diritto giuridico" in senso stretto) non deve interferire, se non proteggendo le condizioni esterne che consentano alla libertà di manifestarsi concretamente, abolendo gli impedimenti (o libertà negativa) e procurando i mezzi per la traduzione in comportamento (o libertà positiva). In questo senso i "diritti giuridici" (identificati con il diritto positivo, la codificazione legislativa e la forza di coazione formale ed esterna dell'ordinamento) avrebbero un ruolo ridotto in materia bioetica, essendo l'agire umano affidato alle decisioni morali degli individui piuttosto che all'intervento pubblico della legge: una biolegislazione ridotta ai minimi termini, elastica e leggera, in grado di adeguarsi alle esigenze del pluralismo bioetico; alla biolegislazione è preferita la biogiurisdizione e la biogiurisprudenza, affidando al giudice la valutazione dei casi, con maggiore duttilità e adattabilità alle circostanze. Il biodiritto diverrebbe un confine pubblico tra le diverse sfere bioetiche private. In questo orizzonte di pensiero si ritiene indispensabile sottrarre la morale alla rigidità e fissità delle norme per minimizzare la pressione del diritto in nome del rispetto dei valori soggettivi, ritenuti insindacabili; entro ogni sfera privata l'individuo definisce la propria morale, non dovendo rendere conto a nessuno (semmai solo alla propria coerenza e alla giustificazione razionale del comportamento etico), limitandosi semmai ad ammettere che l'altro possa fare ciò che vuole (anche nel caso si giudichi il comportamento altrui sconveniente o immorale). Sono accettati taluni limiti alla libertà solo nella misura in cui vi sia un fondato (ma anche solo presumibile) timore per eventuali rischi sulle conseguenze imprevedibili di determinate scelte: solo in questi casi si ammettono regole temporanee, stabilite di volta in volta, utili ad affrontare e tamponare le emergenze sociali (suscitate da allarmismi), ma rivedibili ed eliminabili, se non necessarie.

E' in questo orizzonte che la biopolitica è intesa come "gestione integrale della vita biologica da parte del potere", ove il potere si identifica con il 'biopotere' o potere (individuale e soggettivo) di disponibilità e decisione 'sulla' vita biologica (ridotta ad oggetto di disponibilità da parte della volontà individuale, ritenuta insindacabile).

In questo orizzonte bioetico, biogiuridico e biopolitico si assiste ad una trasformazione del concetto di persona (rispetto al significato filosofico originario): precisamente, si assiste ad una separazione della persona dall'essere umano. Con la conseguenza che non tutti gli esseri umani sono considerato persone (persona si diventa dopo la fecondazione e si cessa/si può cessare di esserlo prima della morte naturale); alcune persone non sono esseri umani.

Nella prospettiva libertaria[3] è persona in senso proprio solo l''agente morale', in grado di essere autocosciente, razionale e di autodeterminanrsi (facendo scelte morali). Solo alcuni esseri umani sono persone: gli adulti sani 'normali' (si escludono dallo statuto personale le fasi iniziali della vita umana, prenatale e postatale; ma anche le fasi terminali e dette 'marginali'). Eppure potrebbero essere considerate persone le intelligenze future artificiali nella misura in cui sapranno prendere decisioni morali. Chi non rientra in tale ambito ristretto, può essere considerato persona ma solo in senso improprio o sociale: alcuni esseri umani (all'inizio e alla fine della vita) sono 'pazienti morali', potendo essere oggetto della 'beneficenza' degli agenti morali. Chi è autonomo può proteggerli e tutelarli, per ragioni diverse (di convenienza, di opportunità, di simpatia o per ragioni estetiche e simboliche): ma essi avrebbero sempre e solo diritti indiretti, deboli, rivedibili, provvisori.

Nella prospettiva utilitarista[4] persone sono gli individui che hanno interessi, che sono in grado di percepire piacere e dolore e di massimizzare il piacere e minimizzare il dolore. Solo alcuni esseri umani sono persone: sono esclusi gli embrioni (fino a che non si sia sviluppato adeguatamente il sistema nervoso centrale, condizione neurofisiologica indispensabile per percepire) e gli individui 'marginali' (dementi, cerebrolesi, handicappati gravi) che, pur percependo, vivono in condizioni esistenziali di bassa qualità di vita, soffrono troppo, fanno soffrire troppo gli altri, nel presente e prevedibilmente nel futuro. Ma alcuni esseri non umani sono persone: alcuni animali che hanno un certo livello di coscienza. Chi non è persona non gode di una tutela: anzi, sussiste il dovere di selezione e di soppressione nei confronti di chi ha una vita di bassa qualità, considerata non degna di essere vissuta.

Le prospettive libertaria e utilitarista (pur nella diversità filosofica delle premesse e delle argomentazioni) delineano il significato biopolitico di persona come un individuo (umano o non umano) che ha un potere sulla vita biologica: più precisamente, un individuo che è in grado di esibire e di esercitare un potere di decisione (mediante l'autodeterminazione e il calcolo degli interessi) sulla vita, propria e altrui (ossia di coloro che non sono ancora, non sono più o non sono e non saranno mai, in grado di esibire ed esercitare un potere). E' una definizione stipulativa di persona che, allontanandosi dalla natura dell'essere umano, ripropone un dualismo tra persona e corpo vivente (riformulando il dualismo platonico corpo/anima e il dualismo cartesiano res cogitans/res extensa):  persona è colui che esercita un potere, dunque manifesta una volontà; corpo vivente è un aggregato di cellule che si scambiano informazioni, che si complessificano e decomplessificano, secondo la legge deterministica della causa e dell'effetto. Da un lato la persona in una visione funzionalistica si riduce alla manifestazione di determinati comportamenti (le funzioni sono 'la' persona) e dall'altro lato il corpo vivente si riduce in una visione scientista e meccanicista ad accumulo di cellule estese in movimento. Con la conseguente amplificazione del potere della persona (la cui volontà è insindacabile) e la strumentalizzazione del corpo umano (la cui protezione o è debole o è nulla, affidata alla decisione del potere soggettivo).

Le implicazioni di una biopolitica intesa come affermazione del potere individuale sulla vita sono identificabili in una linea permissiva rispetto allo sviluppo tecno-scientifico. Nell'ambito delle questioni all'inizio della vita umana, si afferma la priorità del 'potere sperimentale' degli scienziati e dei tecnologi sulla vita dell'embrione (legittimando la sperimentazione non terapeutica). Si afferma inoltre la priorità del 'potere riproduttivo', come decisione in senso negativo o positivo, di non riprodursi o di riprodursi, scegliendo se, come e quando riprodursi legittimando da un lato il diritto a non riprodursi, con la contraccezione, l'aborto e la sterilizzazione, dall'altro il diritto a riprodursi ad ogni costo con l'uso di tecnologie riproduttive (omologhe o eterologhe, con accesso a donne sole e coppie omosessuali, anche con la surrogazione di utero e ectogenesi, o con la clonazione), senza considerare il problema della dispersione, della sovrapproduzione e della riduzione di embrioni e la rilevanza della famiglia come luogo di nascita e crescita del bambino. Si afferma la priorità del 'potere di selezione eugenetica' come diritto ad avere un figlio sano e perfetto (legittimando l'uso di diagnosi prenatali anche preimpianto, pur se rischiose, per decidere l'esclusione a causa di patologie o di caratteristiche indesiderate, tra le quali anche il sesso). Nell'ambito delle questioni di fine vita si afferma la priorità del 'potere di gestire la propria morte', di decidere se come e quando morire, se come e quando la vita vale o non vale la pena di essere vissuta: è l'apertura alla legittimazione delle pratiche eutanasiche in nome della autonomia e della qualità della vita, 'scivolando' dall'ammissione dell'eutanasia volontaria a quella involontaria, dell'eutanasia omissiva a quella attiva, dell'eutanasia come richiesta attuale alla eutanasia come richiesta anticipata. Nell'ambito delle questioni riguardanti la identità sessuale e la famiglia, si afferma la priorità del 'potere di scelta dell'orientamento sessuale': le gender theories ritengono che sia l'individuo sulla base delle inclinazioni, impulsi e desideri a costruire, ma anche a decostruire, la propria identità di genere a prescindere dal sesso della nascita o genetico/endocrino, scegliendo anche se relazionarsi con individui di sesso opposto o dello stesso sesso: nell'orizzonte della neutralizzazione sessuale e della in-differenza sessuale si introduce la normalizzazione della omosessualità, ma anche della bisessualità della intersessualità e della transessualità e la equiparazione delle coppie eterosessuali e omosessuali.

Molti sono gli elementi di problematicità di questa prospettiva biopolitica, che meritano una attenta considerazione.

La bioetica, come ogni sapere, non è irriducibile ad unità: nella misura in cui ogni essere umano è un essere in relazione (non può nell'isolamento raggiungere la propria identità), non siamo 'stranieri morali' ma sempre esseri umani in dialogo alla ricerca di valori che ci accumunino, in quanto esseri umani. Il limite dell'orizzonte individualista non è tanto quello di evidenziare il pluralismo (di fronte alla pretesa moderna e premoderna di verità sostanziale universale ed univoca), quanto semmai quello di affermare l'irriducibilità del plurale: la convinzione che per quanto ci si sforzi, la ricerca di una verità comune, sia improbabile, anzi impossibile e comunque non desiderabile (addirittura pericolosa), porta alla rinuncia al dialogo (ridotto a non senso), alla chiusura solipsistica nella propria individualità contingente, al monologo, all'incomunicabilità. Eppure, proprio il pluralismo (di cui certo non si può non prendere atto, "di fatto") esige "di principio" la comunicazione: il pluralismo non può che essere relazionale (la relazione con se stessi o ciò che è identico a sé non è relazione). Svuotare di senso la relazione significa svuotare di senso lo stesso pluralismo. Ma la pluralità relazionale è autentica solo mediante il dialogo, ove i dialoganti si riconoscano reciprocamente come soggetti (empiricamente, ontologicamente pari) in grado di ricercare una verità comune nel confronto delle reciproche ragioni, nella ricerca della mediazione, nell'apertura all'alterità e all'ulteriorità, nella convinzione che sia possibile una fusione dialettica di orizzonti, nella ricerca di una verità comune.

La pretesa neutralità del biodiritto (quale assenza di qualsiasi presa di posizione rispetto al pluralismo etico) è essa stessa una presa di posizione: chi dice di essere neutrale cade in contraddizione, nel momento stesso in cui dichiara la sua neutralità (anche la neutralità è una presa di posizione rispetto alle posizioni possibili, ad esempio la posizione non neutrale). La neutralità o neutralizzazione assiologica, se coerente, non può prendere posizione nemmeno rispetto ai conflitti tra visioni opposte, simultanee e contestuali (situazioni non certo rare proprio in ambito bioetico). Se la neutralità non può prendere posizione per nessuna visione etica, l'esito ineluttabile è la prevaricazione della visione più forte e aggressiva sulla più debole ed indifesa (in particolare proprio la visione di chi non è in grado di esprimersi, di fare sentire la propria voce nell'ambito sociale, di chi non ha potere). In questo senso neutralità diviene privilegio degli interessi di coloro che hanno interessi o preferenze (e sono in grado di esprimerli), ma soprattutto del potere di chi è in grado di esercitarlo (a danno di chi è indifeso e vulnerabile, e che può facilmente venire strumentalizzato dal potere, usato, sfruttato, scambiato, venduto, distrutto). Ma anche chi fa appello alla neutralità del biodiritto presuppone il riconoscimento (inevitabilmente valutativo) di una esigenza etica minima del diritto; l'esigenza della mediazione, della negoziazione, della pacificazione delle controversie. Il pensiero individualista non ha mai accettato fino in fondo la conflittualità: in questo senso non è mai riuscito nel suo intento, quello di neutralizzare il (bio)diritto, separandolo radicalmente dalla (bio)etica. L'esigenza etica continua a riemergere nel diritto e nella politica, almeno l'istanza ineliminabile, rintracciabile anche nei diversi percorsi postmoderni: l'istanza della ricerca di elementi di condivisione intersoggettiva che evitino la violenza. Ma allora la prospettiva postmoderna non è neutrale (come pretende esplicitamente) e nemmeno relativista (come ammette esplicitamente o presuppone implicitamente), ma afferma un valore minimale, costitutivo ed irrinunciabile: è meglio la coesistenza del conflitto (assumendo la coesistenza come un bene, se non altro perché si riconosce che è la condizione per esistere). Ma questo è un pronunciamento etico, una presa di posizione rispetto alla realtà che contraddice l'intenzione iniziale di neutralità.

 

3. La biopolitica come riconoscimento del bene umano obiettivo.

Alla luce di quanto detto, emerge la rilevanza di ri-significare la biopolitica per passare da una concezione che afferma la priorità della politica come potere arbitrario sulla vita biologica (svuotata di valenza etica) ad una concezione che fondi la politica sul riconoscimento (precedente ed antecedente) della vita umana come bene obiettivo (dunque comune ed universale).

Il nodo di una nuova visione biopolitica è costituito dalla tematizzazione della vita dell'essere umano come bene obiettivo, della dignità intrinseca dell'essere umano. Si tratta di un tema antico (che viene da lontano), che ciclicamente si ripropone alla riflessione filosofica e che diviene di particolare urgenza oggi di fronte al rapido incedere della tecnoscienza biomedica. Una tematizzazione che è chiamata a tenere conto in modo critico della discussione interdisciplinare e pluralistica[5].

La scienza biomedica ci mostra con evidenza che sin dal momento della penetrazione dello spermatozoo nell'ovocita si costituisce un organismo umano che è di più della somma delle parti, che inizia uno sviluppo ininterrotto, coordinato e graduale, teleologicamente orientato alla piena attuazione di ciò che è già inscritto nella natura. La continuità dello sviluppo mostra come non esistano (se non convenzionalmente) tappe o fasi di sviluppo più o meno importanti: sono tutte indispensabili per l'attuazione delle potenzialità.

La identificazione in alcune fasi di sviluppo o in alcune manifestazioni esteriori (di funzioni e di comportamenti, quali l'autonomia e il calcolo degli interessi) della presenza della persona, porta paradossalmente ad escludere dallo statuto personale non solo chi non ha raggiunto tale fase di sviluppo e chi si trova in condizione di dipendenza o non autosufficienza e di scarsa qualità di vita, ma anche di chi (in buona salute e in condizioni di 'normalità') stia semplicemente dormendo o sia in condizioni di anestesia o analgesia. Con il rischio che si possa essere persona 'ad intermittenza', ossia a fasi alterne in base alla presenza o assenza di certi comportamenti o abilità: persona diverrebbe una categoria aleatoria difficilmente applicabile alla prassi. L'equivocità del concetto di persona porta a guardare con sospetto questo concetto: ma l'eliminazione del concetto non risolverebbe gli equivoci bioetici che semmai verrebbero riformulati distinguendo tra esseri umani con dignità ed esseri umani senza dignità.  

In questa direzione il biodiritto può svolgere un ruolo davvero rilevante nel richiamo al significato strutturale e specifico della giuridicità, proprio di fronte alle nuove provocazioni della tecnoscienza e alle nuove possibilità di manipolazione della vita che rischiano di mettere in pericolo l'identità umana. Proprio in bioetica si avverte, in modo sempre più chiaramente percepibile, il pericolo di un diritto che si estranei radicalmente dall'etica: il pericolo di un uso disumano del diritto, il pericolo dell'uso del diritto contro l'uomo. Nel biodiritto è importante recuperare quella consapevolezza, che è progressivamente maturata e si è consolidata dopo le atroci esperienze storiche dei totalitarismi: la consapevolezza che il diritto non può divenire mero strumento asservito alla volontà di chi è più forte, non può essere indifferente rispetto ai valori, non può non veicolare almeno l''etica minima' della  difesa della dignità oggettiva dell'essere umano.

Il biodiritto struttura in modo specifico la propria analisi a partire dalla tematizzazione del criterio di giustizia, quale esigenza intrinseca al diritto, sostanziata nel principio di uguaglianza, simmetria e reciprocità. L'appello del biodiritto alla giustizia mostra la rilevanza dell'imprescindibilità nell'elaborazione, interpretazione ed applicazione di una norma giuridica del riferimento al riconoscimento delle spettanze obiettive di ogni uomo, spettanze radicate nella sua natura. Tale appello risulta di particolare significato per la bioetica: appellarsi al principio di uguaglianza significa ritenere che ogni uomo, per il solo fatto di essere uomo, non può divenire oggetto di discriminazione, ma deve essere trattato come soggetto avente una dignità forte (intrinseca) a prescindere da altre considerazioni estrinseche, relative all'appartenenza politica, religiosa, culturale, ma anche relativamente alla fase di sviluppo psico-fisica che raggiunge. Il principio di uguaglianza (principio primo della dottrina dei diritti umani) si radica nell'essere dell'uomo, indipendentemente dal suo agire: al diritto non interessa che l'uomo dia prova di essere uomo, che esibisca alcune proprietà ritenute in qualche società o cultura di particolare rilevanza, o che possieda o dimostri di possedere alcune qualità o caratteri considerati indispensabili. Il diritto riconosce all'uomo una dignità speciale e sostanziale (non generica ed accidentale) in forza della sua appartenenza al genere umano in vista della salvaguardia della sua identità antropologica: la dignità è un dato naturale da riconoscere non una qualificazione da attribuire o conferire. Il riconoscimento della dignità umana sul piano giuridico fondamentale non ammette diversi livelli di intensità, differenti sfumature o gradazioni.

La tematizzazione della vita dell'essere umano come bene obiettivo comune in bioetica esige anche la tematizzazione della responsabilità che ogni essere umano ha nei confronti dell'altro. La giustizia va integrata con la cura (nel senso di 'prendersi cura') dei soggetti deboli, fragili e vulnerabili. L'essere umano, seppur in condizioni impercettibili all'inizio della vita e in condizioni esistenziali sfumate alla fine della vita, ha bisogno di una adeguata tutela: prendersi cura indica l'atteggiamento virtuoso (l'unico che può concretamente realizzare la giustizia, che altrimenti rimarrebbe un concetto astratto) di chi si pone rispetto all'altro con un atteggiamento di empatia, di sollecitudine e di solidarietà: anche nei confronti di chi è in una condizione di asimmetria e areciprocità; è in condizioni esistenziali di difficoltà e di incapacità di ricambiare le azioni. Senza giustizia (con l'affermazione del principio di uguaglianza ontologica) e senza cura (con l'affermazione del principio di differenza e protezione per chi è in situazioni di debolezza) si può configurare solo una società gerarchica che discrimina tra chi è autonomo e chi è dipendente, chi ha una buona qualità e chi soffre troppo, tra sani e malati, giovani e anziani, abili e disabili.

In questo senso il riconoscimento del bene umano obiettivo costituisce e deve costituire l'orizzonte di senso della bioetica, del biodiritto e della biopolitica. Se il diritto e la politica legittimano qualsiasi richiesta individuale di potere "sul" corpo proprio e altrui (ridotto a materiale di cui si può disporre, a merce di consumo, a deposito di risorse, a oggetto di scambio, da produrre o eliminare), secondo l'idea generale che la civiltà postmoderna della tecnica si è fatta della natura e del corpo, veniamo alienati nel mondo della cose, perdiamo la nostra umanità. Il diritto e la politica sono chiamati a giustificare solo richieste dell'uomo "per" il corpo: anche se all'inizio è quantitativamente impercettibile e alla fine è debole e dipendente dagli altri, è il corpo di un essere umano "come" qualsiasi altro.

In questo senso il diritto alla vita del nascituro deve prevalere sugli interessi della scienza e della società; deve essere bilanciato con i desideri/diritti all'accesso alle tecnologie riproduttive; non deve essere sottoposto a rischi sperimentali nella diagnosi genetica con conseguenti possibili scelte arbitrarie soggettive. Il diritto di chi è malato e soffre è di ricevere cure palliative che eliminino il dolore (e non la vita) e di essere accompagnati umanamente nel morire. Il diritto di ogni uomo e donna è di esprimere la propria identità sessuale e avere le condizioni nella complementarietà eterosessuale per identificarsi.

L'alternativa al relativismo (quale negazione scettica dell'esistenza e della conoscibilità della verità, affidando all'autoreferenzialità arbitraria individuale ogni valutazione etica) non è il dogmatismo (quale affermazione definitiva ed assoluta della conoscenza della verità, da cui desumere, organicamente e gerarchicamente, le norme che regolino ogni comportamento possibile). Vi è (teoreticamente e praticamente) una via intermedia individuabile nel riconoscimento razionale (pertanto critico) del bene umano obiettivo quale orizzonte di senso della biopolitica, intesa autenticamente come scienza del governo per il bene comune.

 

 

 

 

 



[1] Per una ricostruzione delle origini e del significato del termine biopolitica cfr. R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004. Per le origini della bioetica e del biodiritto cfr. F. D'Agostino, L. Palazzani, Bioetica. Nozioni fondamentali, La Scuola, Brescia 2007.

[2] Cfr. U. Scarpelli, Etica laica, Baldini e Castaldi, Milano 1998.

[3] H.T. Engelhardt jr., Manuale di bioetica (19861, 19922), trad. it. di S. Rini, Il Saggiatore, Milano, 19992).

[4] P. Singer, Etica pratica (19791, 19932), trad. it. di G. Ferranti, Liguori, Napoli, 1989; Id., Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più (1994), trad. it. di S. Rini, Il Saggiatore, Milano, 2000.

[5] F. D'Agostino, La dignità umana, tema bioetico, in P. Cattorini, E. D'Orazio, V. Pocar (a cura di), Bioetiche in dialogo. La dignità della vita umana, l'autonomia degli individui, Zadig, Milano 1999, p. 103 e ss.; Id., Parole di bioetica, Giappichelli, Torino 2004; S. Cotta, Il diritto nell'esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica, Giuffrè, Milano 1991; Dalla Torre G., Bioetica e diritto. Saggi, Giappichelli, Torino 1993; Dalla Torre G., Le frontiere della vita. Etica, bioetica e diritto, Roma, Studium 1997.

 

Pubblicato il: 11/02/2008

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