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Una 'chicca' nella rassegna stampa che tratta di Riccardo Cotarella

Approfondimento

L'orvietano Riccardo Cotarella, enologo di fama, passa dalle cantine californiane e francesi a quelle amerine

di ALFONSO MARCHESE
"Wizard" lo chiamano in California. Che significa "mago". Anche se lui, Riccardo Cotarella, non ha il tratto dello sciamano. Dell'uomo dotato di poteri straordinari che fa spalancare la bocca agli increduli o che muta l'acqua in vino. Quest'ultimo ha a che fare con la sua professione. Che lo porta a spasso per mezzo mondo. Dall'Italia alla Francia (e lui "mago" del Merlot è stato chiamato, unico "straniero" nel tempio di questo tipo di vitigno) e da qui nella West Coast degli Stati Uniti. Ormai l'enologo orvietano è un mito. Fermentato a poco a poco insieme ai vini che ha portato a maturazione. Riccardo Cotarella è figlio d'arte. Nel senso che la vocazione per questo genere di lavoro non gli è venuta a caso. Dal nonno, al padre ha ereditato insieme al fratello un vigneto che ora toccherà ai figli gestire. La maggiore s'è laureata in agraria, convertendo il fidanzato ad abbandonare la facoltà di architettura e iscriversi a quella che ha più attinenza con le tradizioni di famiglia. Parentesi domestica a parte, Riccardo Cotarella è un professionista Doc. Che parla tre lingue che gli si sciolgono una ad una a seconda della patria cantina affidata alle sue cure. Diplomato alla scuola enologica di Conegliano Veneto, fin da giovane ha fatto tesoro dell'esperienza accumulata a Orvieto. La sua autorevolezza nel campo gli deriva dal fatto che la produzione vinicola è l'unico settore dove il computer non può bagnarvi il becco. E ciò perché il numerodelle incognite, come lui stesso spiega, è troppo grande per intrappolarle in equazioni algebriche da affidare al software perché le elabori e le sputi fuori con indifferenza.
«Il vino richiede grande rispetto -esordisce "Wizard"- E anche molta umiltà. Se ci si avvicina con arroganza si può essere traditi...»
Negli anni Ottanta ricevette un invito da parte del presidente della cantina dei "Colli Amerini" Edoardo Mazzocchi. S'incontrarono al ristorante e quest'ultimo esordì dicendo che era stato colpito da un passo delle "Georgiche" di Virgilio. Il buon Riccardo lì per lì fece buon viso a cattivo gioco e calcolò che mezzo bicchiere di vino non aveva potuto avere un effetto così dirompente. Anche se non ci si può mai pronunciare sui suoi contraccolpi, dipendendo anche in questo caso da vari fattori. «Come le dicevo - riattaccò Mazzocchi guardandolo con occhi da furetto e dandogli del lei - ho trovato in Virgilio un passo in cui si parla del vino dei nostri Colli...» E allora? «Allora - continuò - non ci si ricorda di quel tipo di vino, inserendole nei versi latini, se non è rimasto appiccicato alla memoria...». Sì, bene, dunque? «Dunque su queste colline si può produrre del vino migliore di quello che produciamo adesso...Se ne vuole occupare lei?» E ci voleva tanto a dire chiaro e tondo quale fosse l'intenzione presidenziale? «Eh no! - osserva Mazzocchi - un acino d'uva ha corpo e spirito. Bisogna vedere come uno lo alleva. E conoscere il passato è importante per il presente. La storia sta scritta anche nei grappoli...Giuro che non ho bevuto». E sia!
Da quella sfida nacque alcuni anni dopo il "Carbio". Che fece grattare la testa a molti intenditori: possibile? «Certo che sì - racconta con nonchalance il mite Riccardo - Attraverso l'impianto di Merlot abbiamo ottenuto del vino di grande pregio». Più semplice a dirsi che a farsi. Perché il processo è piuttosto complicato. «Oggi un enologo deve eessere anche agronomo - sottolinea - E' il tipo di vite, ma anche il terreno e il versante dove fare l'impianto. Il sole che si assorbe con una esposizione a nord non è lo stesso di quello che s'accumula a sud o sud ovest. E poi c'è il problema dello sfoltimento, che in termini tecnici significa diradamento. In pratica da una vite si eliminano i grappoli che si ritengono siano in soprappiù per consentire a quelli che rimangono di avere maggiore disponibilità di linfa. Un conto è che siano in due o tre ad attaccarsi al seno di una mamma, un altro se è uno solo. La stessa cosa facciamo con la vite. I grappoli preferiti sono quelli più vicini al cosiddetto cordone speronato». Insomma al fusto della vite.
L'enigma sta proprio in questo: quanti grappoli bisogna eliminare per ottenere un vino di qualità? Nei primi tempi ad Amelia e dintorni alcuni coltivatori lo presero per matto. Non ne volevano sapere di buttare via l'uva. Il solo pensiero li faceva sentire male. «Oggi sono i miei più grandi estimatori ed amici» dice divertito Riccardo Cotarella. «Ormai è norma che il trenta per cento di una pianta debba essere sacrificato se si vuole avere una resa buona. E la qualità costituisce il fattore trainante sul mercato».
Da settembre a novembre non si chiude occhio. «Questo è certo. E' la fase più delicata. Anche erché si tgratta del momento in cui arriva al culmine un processo fatto di innesti, di radici, di rilevamento e di andamento stagionale che non si può mai prevedere se non approssimativamente». Possibile che non gli sia capitato di assaggiare vini invecchiati di qualche secolo? «Un Pomerol del 1848, a Parigi, in un ristorante rinomato - ricorda Riccardo Cotarella - Eravamo in dodici a tavola. Al momento dell'apertura della bottiglia cessammo tutti di parlare. E restammo in silenzio nel momento magico dell'assaggio. Aveva un leggero sapore di menta. Un vino affascinante, che accarezzava il palato».
Lo diceva il grande Hemingway in "Fiesta": il vino ha un'anima e non bisogna disturbarla; per questo va bevuto in religioso raccoglimento. «Eh già!» conferma il "mago". «E' così» gli fa eco il presidente Mazzocchi.

(Il Messaggero, 16/2/2000)

Pubblicato il: 22/05/2003

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