Ultimo giorno di "VitArte", mostra mercato di arte moderna e contemporanea
La galleria della Rupe "Vetus arte contemporanea", direttore artistico Raffaella Zajotti, è presente nella città dei Papi con tre artisti orvietani: Paolo Cosenza, Jan Macko e Sara Spaccino
ORVIETO - Chiude i battenti oggi la tre giorni che Viterbo dedica ogni anno a "VitArte", mostra mercato di arte moderna e contemporanea. La galleria della Rupe "Vetus arte contemporanea" (direttore artistico Raffaella Zajotti) è presente nella città dei Papi con tre artisti orvietani: Paolo Cosenza, Jan Macko e Sara Spaccino. Paolo Cosenza, attivo dal 1982, è ceramista, designer e pittore; lavora e vive ad Orvieto. Jan Macko, nato in Cecoslovacchia, è artista di formazione autodidatta; vive e lavora ad Orvieto dal 1982. Sara Spaccino, nata ad Orvieto, dove vive e lavora, è scultrice e pittrice.
di Raffaella Zajotti
Ma questa pittura è un videogioco?È questo che sembrano dire i quadri di Paolo Cosenza, che nel
IL MONDO DI SARA. Il mondo di Sara è un mondo favolistico, di grande suggestione e incanto, una scrittura fantastica che parla la lingua del sogno, dell'inconscio della materia, della natura intatta e incontaminata che incontra la forma di un destino: i legni, i tufi, i colori, chiedono immagini per esistere, come grandi corpi, volti, come rapaci imponenti che prendono forma, come sogni della materia; a volte diventano veri e propri oggetti magici, come il bastone incastonato, o animali, esseri fatati, fauni, ninfe. Non è un caso che il rapace sia una figura ricorrente nell'opera di Sara, rappresentazione dell'artista che guarda oltre, mentre sorvola l'apparenza, con una lungimiranza che gli viene dall'istinto, dall'amore, dalla natura, dalla materia, quello stesso che muove l'artista a comporre con la forza della necessità e della naturalezza di una ricerca iniziata e portata avanti da autodidatta. Bellissimi gli acquarelli, magici, suggestivi, emblematici. L'uso del tufo, un materiale così terrestre e respingente, morbido nell'incontro con le mani, polveroso, storico, orvietano come Sara, eppure galattico, potrebbe appartenere a qualsiasi universo. È fragile il tufo, fragile eppure pesante, ambivalenza che riconosce il suo equivalente in una metafora della condizione umana. Nel mondo di Sara la figura femminile domina come una sovrana dormiente, ed è rappresentazione di se stessa e della sua delicata interiorità, del rapporto con la natura e la sua storia che è proprio del femminile che da sempre ne conosce l'interna vita, il ciclo della sua rinascita, e la natura rappresenta uno specchio del femminile così come il femminile conosce il segreto della nascita, della crescita, un segreto fatto di terra e di silenzio, iscritto nel legno, nei volti dormienti, nel grido delicato di un'appartenenza. È quel silenzio, quella passività efficace, quell'ascolto della natura così attento e discreto, che concede alle forme di nascere, a volte anche solo da uno sguardo ad un legno, una pietra, che sa vederne la forma potenziale, senza alcuna violenza sul materiale, e la bellezza che riesce a vedere la enfatizza con un colore più caldo, più freddo, con una luce più profonda, un'incanalatura, un rilevo. Il materiale esiste da prima di noi, ed è testimone silente del mondo e dei suoi esiti: è la storia iscritta nelle cose che Sara porta alla luce, per raccontare la sua storia, la nostra storia. Nel tufo portatile è ancora il tufo, che informa grandi blocchi geometrici da cui nascono viventi umani portatili e sofferenti, schiacciati alla genesi prima ancora di aprire gli occhi, e trasportati dalla realtà in chissà quali meandri, con pratiche maniglie di ferro. Il tufo portatile è la continuazione postmoderna della poetica di Sara che trova nella narrazione della condizione umana un riscontro così perfetto da suggerire una straordinaria continuità col percorso precedente, con la nota di un'ironia tragica delicata e graffiante.
JAN MACKO: PSICOLOGIA DELLA PERCEZIONE
La ricerca di Jan Macko si concentra su una spazialità molto visiva, legata allo sguardo ed all'osservazione introspettiva della sua trasformazione delle cose. Quando guardiamo una scena, spiega Jan, l'occhio non cattura tutti i particolari compresi nel campo visivo, ma si concentra su un'area molto ristretta compresa attorno al punto che stiamo fissando. Sono poi i continui ed inavvertibili movimenti oculari a spostare continuamente il punto di osservazione per permettere di ricostruire un'immagine più ampia e particolareggiata della scena. Questo è perfettamente visibile nei lavori di Jan Macko, stratificati attorno ad un luogo visivo focale che sfuma in una periferia più tenue, ricreando questa dinamica: è questo il concetto di "focalismo". L'effetto è quello di una penetrazione profonda in quello sguardo, che riproduce ed amplifica la nostra percezione, dando un effetto di sfondamento: nelle opere di Macko si ha la sensazione di essere avvolti ed allo stesso tempo di riuscire a vedere per la prima volta dentro quei colori puri, che giocano a legare gli occhi attorno a quell'astrazione di luce, a quell'attenzione fragile alle cose, per un attimo fermata, per una volta, a ricordarcene l'esistenza. E questa attenzione è come una preghiera, attraverso le cose, attraverso uno sguardo che si è posato sofferente su quelle cose ed ha chiesto alla bellezza di incontrarle. È lo sguardo della Praga di Macko che ha vissuto la fine degli anni '70, esplorata sommessamente, con uno sguardo nostalgico e attento, quasi a rubare il mondo, in ogni paesaggio, in ogni figura, in ogni cosa, sempre, pur nei colori sommessi, quasi un anelito alla libertà, sguardo portato in tutte le vedute ed in tutti i paesaggi dei luoghi di Jan, anche in Italia. Ricerca che Jan ha portato anche nelle figure del suo mondo intimo e familiare, con un'intensità che risente positivamente dell'influenza espressionista interpretata con una delicatezza personalissima, quasi una carezza alle cose, possedute per miracolo da uno sguardo, almeno uno sguardo. Sono sempre gli sguardi ad essere così intensi nelle figure di Macko, sguardi fatti di grandi occhi che interrogano, sempre, al di là dello spettatore, in un antro che l'attraversa, come una figura inerte. Il mistero dello sguardo attraversa tutta l'opera del pittore, ed è quello sguardo così sofferto nel suo anelito alla libertà che diventa puro guardare, una concentrazione assoluta, un possedere a distanza, una preghiera bellissima.
Pubblicato il: 11/03/2007