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Ultimo giorno di "VitArte", mostra mercato di arte moderna e contemporanea

La galleria della Rupe "Vetus arte contemporanea", direttore artistico Raffaella Zajotti, è presente nella città dei Papi con tre artisti orvietani: Paolo Cosenza, Jan Macko e Sara Spaccino

ORVIETO - Chiude i battenti oggi la tre giorni che Viterbo dedica ogni anno a "VitArte", mostra mercato di arte moderna e contemporanea. La galleria della Rupe "Vetus arte contemporanea" (direttore artistico Raffaella Zajotti) è presente nella città dei Papi con tre artisti orvietani: Paolo Cosenza, Jan Macko e Sara Spaccino. Paolo Cosenza, attivo dal 1982, è ceramista, designer e pittore; lavora e vive ad Orvieto. Jan Macko, nato in Cecoslovacchia, è artista di formazione autodidatta; vive e lavora ad Orvieto dal 1982. Sara Spaccino, nata ad Orvieto, dove vive e lavora, è scultrice e pittrice.

di Raffaella Zajotti
Ma questa pittura è un videogioco?È questo che sembrano dire i quadri di Paolo Cosenza, che nel 2006 ha inaugurato la serie omonima. I quadri, come desktops pieni di icone vuote, raccontano percorsi immaginati, sussurrati, ostentati con un irridente cromatismo lezioso, parodia delle forme di rappresentazione della realtà edulcorata in cui tutto è visibile e nulla è autentico, reale. Non mancano nei quadri di Paolo riferimenti figurali alle icone del reale edulcorato, della sessualità ostentata e desensorializzata, figure ripetute, ossessivamente, deprivate del loro potere in questa forma paradossale di visibilità, ecco infatti le gambe tagliate: delle modelle restano solo sagome vuote, di schiena, recise, visibili come simbolo che non rimanda a niente, ripetizione di se stesse, ripetizione del vuoto che fruga dalla realtà vuota, come i busti castrati, sagome inerti e rigide, sorrette e schiacciate dalla trama di quegli stessi percorsi, trafitte dalla loro inutilità, piangono un sangue sintetico e tragico, come parodia non tanto del grido inarticolato, quanto del silenzio schiacciato rinchiuso in quella campitura così troppo perfetta da implodere in occhi e bocche cuciti a stento, graffiati da tutto quello che le parole non dicono. Il gioco dell'indifferenziazione procede fino a dissolvere il significato del concetto stesso di regola. Nella pittura di Paolo Cosenza ciò che sembra caso è regola e ciò che sembra regola è caso. Nella genesi delle opere, Paolo ripete con un automatismo quasi stregato una disposizione di segni, di tagli sulla tela intarsiati con una geometria inconscia che si ripete in modo costante, formando una regola implicita del gesto a renderla già pittura. La regola diventa caso nel gioco interattivo. Il gioco interattivo è l'evoluzione dei percorsi di locazione della clip art vuota: allo spettatore il compito di giocare con la pittura videogioco, posizionando l'indice o la clip secondo il suo gusto. Ecco come qui la regola diventa caso. L'arte di Paolo ha un'impostazione che può dirsi negativa in quanto la sua è una genesi per negazione, la sua forma è ciò gli rimane da mostrare, se si confronta coi linguaggi tradizionali dell'arte e si inserisce nel dialogo volgendo al mondo virtuale, con infinite possibilità per un numero finito di regole. Il concetto di arbitrio ha un'accezione negativa per Paolo: la pittura che non guardi al nuovo e si releghi all'intimismo sregolato del soggetto è statica, perché non si apre ad un dialogo con le informazioni che vivono con noi nel mondo e lo permeano, fosse anche di nulla, e che non possiamo ignorare.Per questo Paolo cerca un'arte che possa raccontare qualcosa del mondo di oggi, dei suoi percorsi, reali o immaginari, delle sue icone, dei suoi colori, del suo vuoto. La scelta di un linguaggio così prossimo al mondo del computer è infatti dettata dalla necessità di parlare un linguaggio che si rapporti con la nostra percezione del mondo e con le sue forme di rappresentazione, aderendo ad una rappresentazione sintetica di questo stesso mondo. Ma questa pittura è un videogioco? È pur sempre pittura: umana, profondamente disillusa, raffinata e malinconica, odierna perchéscioglie stanchezze linguistiche riallacciando geometrie contemporanee e si prende gioco dei linguaggi nel linguaggio che deve sempre rinnovarsi in quel sistema appunto che si nutre del nuovo per continuare ad esistere.

 


IL MONDO DI SARA. Il mondo di Sara è un mondo favolistico, di grande suggestione e incanto, una scrittura fantastica che parla la lingua del sogno, dell'inconscio della materia, della natura intatta e incontaminata che incontra la forma di un destino: i legni, i tufi, i colori, chiedono immagini per esistere, come grandi corpi, volti, come rapaci imponenti che prendono forma, come sogni della materia; a volte diventano veri e propri oggetti magici, come il bastone incastonato, o animali, esseri fatati, fauni, ninfe. Non è un caso che il rapace sia una figura ricorrente nell'opera di Sara, rappresentazione dell'artista che guarda oltre, mentre sorvola l'apparenza, con una lungimiranza che gli viene dall'istinto, dall'amore, dalla natura, dalla materia, quello stesso che muove l'artista a comporre con la forza della necessità e della naturalezza di una ricerca iniziata e portata avanti da autodidatta. Bellissimi gli acquarelli, magici, suggestivi, emblematici. L'uso del tufo, un materiale così terrestre e respingente, morbido nell'incontro con le mani, polveroso, storico, orvietano come Sara, eppure galattico, potrebbe appartenere a qualsiasi universo. È fragile il tufo, fragile eppure pesante, ambivalenza che riconosce il suo equivalente in una metafora della condizione umana. Nel mondo di Sara la figura femminile domina come una sovrana dormiente, ed è rappresentazione di se stessa e della sua delicata interiorità, del rapporto con la natura e la sua storia che è proprio del femminile che da sempre ne conosce l'interna vita, il ciclo della sua rinascita, e la natura rappresenta uno specchio del femminile così come il femminile conosce il segreto della nascita, della crescita, un segreto fatto di terra e di silenzio, iscritto nel legno, nei volti dormienti, nel grido delicato di un'appartenenza. È quel silenzio, quella passività efficace, quell'ascolto della natura così attento e discreto, che concede alle forme di nascere, a volte anche solo da uno sguardo ad un legno, una pietra, che sa vederne la forma potenziale, senza alcuna violenza sul materiale, e la bellezza che riesce a vedere la enfatizza con un colore più caldo, più freddo, con una luce più profonda, un'incanalatura, un rilevo. Il materiale esiste da prima di noi, ed è testimone silente del mondo e dei suoi esiti: è la storia iscritta nelle cose che Sara porta alla luce, per raccontare la sua storia, la nostra storia. Nel tufo portatile è ancora il tufo, che informa grandi blocchi geometrici da cui nascono viventi umani portatili e sofferenti, schiacciati alla genesi prima ancora di aprire gli occhi, e trasportati dalla realtà in chissà quali meandri, con pratiche maniglie di ferro. Il tufo portatile è la continuazione postmoderna della poetica di Sara che trova nella narrazione della condizione umana un riscontro così perfetto da suggerire una straordinaria continuità col percorso precedente, con la nota di un'ironia tragica delicata e graffiante.


JAN MACKO: PSICOLOGIA DELLA PERCEZIONE
La ricerca di Jan Macko si concentra su una spazialità molto visiva, legata allo sguardo ed all'osservazione introspettiva della sua trasformazione delle cose. Quando guardiamo una scena, spiega Jan, l'occhio non cattura tutti i particolari compresi nel campo visivo, ma si concentra su un'area molto ristretta compresa attorno al punto che stiamo fissando. Sono poi i continui ed inavvertibili movimenti oculari a spostare continuamente il punto di osservazione per permettere di ricostruire un'immagine più ampia e particolareggiata della scena. Questo è perfettamente visibile nei lavori di Jan Macko, stratificati attorno ad un luogo visivo focale che sfuma in una periferia più tenue, ricreando questa dinamica: è questo il concetto di "focalismo". L'effetto è quello di una penetrazione profonda in quello sguardo, che riproduce ed amplifica la nostra percezione, dando un effetto di sfondamento: nelle opere di Macko si ha la sensazione di essere avvolti ed allo stesso tempo di riuscire a vedere per la prima volta dentro quei colori puri, che giocano a legare gli occhi attorno a quell'astrazione di luce, a quell'attenzione fragile alle cose, per un attimo fermata, per una volta, a ricordarcene l'esistenza. E questa attenzione è come una preghiera, attraverso le cose, attraverso uno sguardo che si è posato sofferente su quelle cose ed ha chiesto alla bellezza di incontrarle. È lo sguardo della Praga di Macko che ha vissuto la fine degli anni '70, esplorata sommessamente, con uno sguardo nostalgico e attento, quasi a rubare il mondo, in ogni paesaggio, in ogni figura, in ogni cosa, sempre, pur nei colori sommessi, quasi un anelito alla libertà, sguardo portato in tutte le vedute ed in tutti i paesaggi dei luoghi di Jan, anche in Italia. Ricerca che Jan ha portato anche nelle figure del suo mondo intimo e familiare, con un'intensità che risente positivamente dell'influenza espressionista interpretata con una delicatezza personalissima, quasi una carezza alle cose, possedute per miracolo da uno sguardo, almeno uno sguardo. Sono sempre gli sguardi ad essere così intensi nelle figure di Macko, sguardi fatti di grandi occhi che interrogano, sempre, al di là dello spettatore, in un antro che l'attraversa, come una figura inerte. Il mistero dello sguardo attraversa tutta l'opera del pittore, ed è quello sguardo così sofferto nel suo anelito alla libertà che diventa puro guardare, una concentrazione assoluta, un possedere a distanza, una preghiera bellissima.

 

Pubblicato il: 11/03/2007

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