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Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di male

Fausto Cerulli

Orvieto, come tutte le citt? di provincia, ? una citt? cattiva. Qualche giorno fa, alla cerimonia funebre per una mia amica che aveva deciso di non dover pi? decidere e di non dover pi? essere decisa, e per questo aveva scelto di morire volando in basso per andare in alto, don Italo ha detto parole molto giuste e precise. Non mi succede spesso di essere d?accordo con don Italo, ma quando lo ho sentito rivolgersi ad un gruppo di adolescenti, raccomandando loro di non lasciare sole le persone che camminano per strada con gli occhi pieni di mille solitudini, ho capito che don Italo aveva centrato un Problema. Ad Orvieto le persone non parlano tra loro, si sfiorano e si salutano, scambiano battute che vorrebbero essere spiritose. Ma non escono dal loro guscio. Sono spietate senza volerlo e spesso con la volont? di essere spietate. Si genuflettono ai potenti, si inchinano a chi di dovere e di potere, ma se un povero cristo cammina in mezzo a loro con lo sguardo smarrito, lo scansano, lo evitano e poi ci ridono su.

Guai, ad Orvieto, a non essere normalmente normali. Ti fanno pesare la tua diversit?, si accaniscono su di essa, la gonfiano nei loro chiacchiericci quasi infami ed impudichi.

Io ho provato di persona questa persecuzione, mascherata da una ipocrita e compiaciuta aria di commiserata comprensione. Ero depresso, scendevo poco ad Orvieto da Porano, lo facevo per cercare di essere normalmente normale. Dalle porte dei bar, che sono i sinedri di questa citt? malata, persone che ritenevo amiche mi salutavano con diffidenza e sospetto, non accettavano il mio non essere disposto al lazzo e al frizzo, non  si rendevano conto del mio disperato bisogno di comunicare: oppure se ne rendevano conto, ma facevano i loro conti e contavano che non valeva la pena di dirmi una parola che forse mi avrebbe sollevato il poco spirito che in quei giorni mi restava. Ho parlato di me, ma volevo e voglio dire di tutti quelli, e non sono pochi, che portano in giro i loro problemi negli occhi spauriti, nel loro passo troppo lento o troppo affrettato, nel loro timore di essere ingombranti.

Ho visto e vedo tante persone in questo stato, ho visto e vedo come vengono guardate: ho visto e vedo che la gente sorride loro quando le incrociano, e poi ride quando sono passate.

Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di male. Anche quelli che ridono dei depressi, che li prendono per matti, che li condannano ad un accrescimento del malessere, anche loro hanno la depressione sulla soglia della coscienza. Perch? la colpa, in fondo, non ? dei singoli orvietani; ? la colpa di Orvieto, di una citt? che non riesce a darsi un centro ideale, che gira su se

stessa, che si crogiola nelle piccole polemiche, nelle politichette d?accatto.

Don Italo, in quel suo discorsetto ai giovani nella chiesa con la bara della mia Amica, chiese loro di non abbandonare a se stessi i propri simili che si abbandonavano a se stessi. E disse una parola che io, da marxista, avevo sempre ascoltato e letto con sufficienza e quasi con fastidio: la parola

SOLIDARIETA?.  Molte persone a me care, troppe, hanno troncato la propria vita con improvvisa decisione suicida. Ma io so che non c?era nulla di improvviso in quella decisione. Era il disperato preciso disegno di chi aveva tante parole da dire e non trovava le persone disposte ad ascoltarle. Mancava loro la parola magica pronunciata dal mio amico-nemico don Italo: SOLIDARIETA?. Ora mi sembra di capire meglio, come se mi si fosse aperto uno spiraglio. Anche di questo ho da essere grato alla mia amica Carlotta, alla sua morte mattutina, alla sua passeggiata estrema fuori porta.

Pubblicato il: 28/06/2007

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