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Bagdad, una storia vera che non ? ancora finit?...

Fausto Cerulli

Di Fausto Cerulli Baghdad, una storia vera che non ? ancora finita… L’Italia ha un cuore verde, recita uno slogan turistico, e questo cuore si chiama Umbria: fu dentro questo cuore che dieci anni or sono, mese pi? mese meno, l’Iri, tanto per non smentire la sua vocazione di Ricostruzione Industriale, ave- va messo in cantiere addirittura una parte di un supercannone commissionato da Saddam Hussein. Accadeva a Terni, che allora la chiamavano la Detroit italiana per via delle sue alacri acciaierie: quando la questione venne allo scoperto fece l’effetto di una bomba, e non fu effetto strano trattandosi di un supercannone. La storia ? ingarbugliata: a quel tempo l’Iri era ancora l’Iri, e Saddam Hussein era ancora nelle grazie di dio Usa, e quel supercannone doveva servire a combattere il perfido Iran di Khomeiny. Era dunque roba da bruciarsi le mani, e un giudice qualsiasi avrebbe fatto finta di niente, avrebbe accettato le spiegazioni ufficiali dell’Iri: per cui tutto quel ferro lavorato non doveva servire a completare un cannone, ma soltanto a completare un acquedotto. Non fu di questo parere un sostituto procuratore che poi sarebbe stato chiamato il Di Pietro di Terni, quando l’appellativo Di Pietro non suonava sarcastico: gli capitarono tra le mani carte scottanti, che rinviavano ad altri stati europei, ad altre fabbriche metallurgiche; e venne fuori che in Belgio e in Inghilterra erano stati costruiti altri pezzi del supercannone, ed era una questione di assemblaggio, un pezzo qua un pezzo l? e poi spediamo il tutto a Bagdad; un gioco da ragazzi, una specie di puzzle continentale. La parte italiana della storia, dal punto di vista giudiziario, comincia a Napoli, molo Bausan: per caso o per soffiata in un magazzino del molo vengono trovate in quattro container pronti per l’imbarco settantacinque tonnellate di acciaio: non si tratta di acciaio qualsiasi, ? fatto a forma di tubo gigantesco, non ritornano i conti della carta d’imbarco e della polizza, chiamiamola cos?, di accompagnamento. La faccenda finisce nelle mani dei Carabinieri del nucleo antiterrorismo, i quali sequestrano il tutto e assumono, come si dice in pessimo italiano ma efficace, le prime sommarie informazioni: viene fuori che quell’acciaio, messo insieme, as- somigliava maledettamente alla culatta enorme di un cannone; luogo di produzione Terni, produttrice la Societ? Fucine, fiore all’occhiello dell’Iri: destinazione immediata Akaba, Giordania: destinazione finale la citt? delle Mille e una Notte, la Bagdad dei profumi d’oriente. Il giudice di Terni si mette in testa di indagare: scopre che a Roma esistono disegni industriali del supercannone, e che quella culatta travestita da acquedotto si attaglia a quei disegni e ne ? parte integrante. Il supercannone ha pure un nome inglese, Doomsday, che significa pi? o meno giorno del giudizio universale. Gli altri pezzi sono stati sequestrati in Inghilterra, in Grecia ed in Turchia: tutti in partenza per la solita Bagdad. Si viene a scoprire che sembra tutto regolare: c’? una regolare ordinazione, che viene regolarmente dall’Irak, e c’? pure una Banca che, regolarmente, si ? assunta la garanzia dell’operazione: regolarmente operazione acquedotto od oleodotto, roba da tubi, in ogni modo. Poi spunta qualche morto di troppo. Un certo Gerard Bull, tanto per cominciare. Canadese per nascita, statunitense per cittadinanza, incidentalmente belga in una morte non troppo incidentale: accoppato a Bruxelles con due colpi di pistola, mentre faceva ritorno in una casa ospitale, almeno nel programma di Bull. Un fabbricante di armi, ma non fabbricava fucili da caccia. Tanto per dare un’idea del suo lavoro aveva progettato un cannone semovente per il Sudafrica, che l’aveva usato per la sua prima ed ultima atomica: dopo aver lavorato qualche tempo per il Pentagono aveva deciso di rimettersi in proprio, perch? non gli andava di star sotto padrone ( e che padrone…) ed era andato in Belgio; aveva messo su la sua bella Societ?, la Space Research Corporation, e cominci? a progettare ed a vendere cannoni a lunga gittata: acquirenti prima il Sudafrica di prima, poi il Cile di Pinochet. Finch?, per sua disgrazia, cominci? a lavorare per l’Irak: lo sanno tutti, da quando si scrivono e si leggono libri gialli, che scherzare con l’ Oriente, medio o estremo che sia, non ? troppo sicuro: ma si vede che il nostro Bull, preso com’era a progettare e vendere armi di quella stazza, non aveva tempo per leggere gialli: magari per diventarne protagonista involontario, questo s?. Il 22 marzo del 1989 il nostro Bull s’incontra con la morte: il 10 aprile i servizi segreti inglesi si incontrano con un mercantile diretto in Irak: a bordo i soliti tubi, 140 tonnellate. La faccenda finisce in Parlamento, quello inglese ovviamente; e il ministro britannico dell’industria, lasciata per un poco la flemma, spiega come quei tubi facciano parte di un cannone. Ed avanza il sospetto che le altri parti del cannone stesso, in omaggio all’Europoa che avanza, siano in costruzione in altri siti di Eurolandia. I servizi segreti inglesi cercano di dar la caccia alle altre tessere del puzzle. Il 19 aprile un altro tesserone viene bloccato nel porto greco di Patrasso, mentre attende che la nave-cargo faccia vela per Bagdad. Arriviamo cos? al mese di maggio, arriviamo al porto di Napoli: vuoi vedere che la scoperta di cui si diceva all’inizio ? favorita dai servizi di Sua Maest? Bri- tannica? Quello che ? certo ? che l’acciaio lavorato in quel di Terni ben si combina con gli altri acciai sequestrati. Il puzzle ? completo: e qui comincia il grande Puzzle. Che non ? ancora concluso. L’ho saputo, mentre si discorreva del pi? o del meno, proprio da quel giudice che fu chiamato il Di Pietro di Terni. Una mattina di qualche mese fa, in un tranquillo Tribunale di provincia, in attesa che chiamassero un processo di provincia. La storia prosegue. Alla prossima puntata.

Pubblicato il: 19/12/2002

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