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Parliamone, di queste morti volontarie, del suicidio che si sparge nella nostra citt

Fausto Cerulli

Parliamone, di queste morti volontarie, parliamone mentre sul mondo si addensa lo spettro delle morti involontarie, le non volute morti della guerra, le morti intelligenti. Parliamo del suicidio che si sparge nella nostra citt?, nelle nostre campagne, come una estranea epidemia. Orvieto che si vuole una citt? da vivere, conta i suoi morti di una distruzione autogestita. Una volta, qualcuno lo ricorda, erano i giovani ad uccidersi: e l?appuntamento era fissato alla rupe di san giovanni, con la possibilit? di gettare l?ultimo sguardo al cimitero. Rico, poi Gianna, poi il giovane Porcari, ed il giovane Achilli?.Lo so, ? una macabra contabilit?, ma non si pu? sempre fare finta che quelle morti non siano state morti pesanti. In questi giorni la malattia mortale del suicidio colpisce le persone anziane, gente di campagna o di piccolo paese, persone pensionate o pensionabili, gli emarginati di questo mondo in cui a dodici anni si va a sanremo e nessuno mette in galera pippo baudo per sfruttamento di minori, dopo che ha patteggiato la pena per corruzione. Se a dodici anni si pu? essere protagonisti di una sera tutto sommato pi? ridicola che oscena, vuol dire che ogni anno di vita conta per quattro: e a cinquant?anni ne abbiamo duecento, e duecento sono tanti e magari uno si rompe anche le scatole e si impicca tanto per cambiare vita, per scambiare una vita troppo lunga con una morte molto breve. Il suicidio, una volta, era un privilegio degli artisti, e la spiegazione ufficiale era che gli artisti sono troppo sensibili, ed hanno la pelle tenera, e al primo inciampo, zacchete, un taglio secco e via. I poveri, una volta, non si suicidavano: ci pensava la miseria, la malnutrizione, la mancanza di assistenza sanitaria a toglierli di mezzo. Poi il suicidio cominci? a coinvolgere i giovani: e qui le spiegazioni si sbizzarrivano. Uno si uccide per una delusione d?amore, un altro perch? non si sente capito, un altro ancora perch? era destinato ad uccidersi, un altro perch? si sentiva destinato ad altro ed il destino gli sfuggiva di mano. Era comunque un mistero, la morte del suicida. Finch? la scienza non ha scoperto la parola chiave, la spiegazione che spiega tutto. La depressione. Uno si uccide perch? ? depresso, e magari oggi sappiamo che la depressione ? una questione chimica, qualche ormone che viene secreto meno o pi? del necessario.  Una spiegazione tranquillizzante, tutto sommato. Se il suicidio si spiega con la depressione, e la depressione si spiega con una formula chimica, nessuno ha colpa di nulla. Il suicidio ? una specie di tumore, una malattia che prima o poi riusciremo a sconfiggere, un episodio di casistica clinica: e la depressione, come movente, libera i superstiti da ogni senso di colpa nei confronti di chi decide di ammazzarsi. E quando dico ?i superstiti? non mi riferisco ai parenti e agli amici del suicida: mi riferisco alla collettivit? nel suo insieme. Fateci caso, la storia sembra diventata una specie di rincorsa alla liberazione dal senso di colpa. Una liberazione che ci consente di parlare di una guerra come di una partita di calcio; con i tifosi e con gli striscioni e con le bombe carta che spianano la strada alle bombe intelligenti per bambini stupidi. Una liberazione che ci consente di non sentirci coinvolti dai suicidi che affollano le nostre cronache. Rimettiamo tutto nelle mani degli psichiatri, degli psicologi, degli psicoterapeuti: cos? possiamo lavarci le mani della coscienza, e ci nascondiamo ( scusate l?orrido gioco di parole) dietro una foglia di ?psico, Troppo comodo, amici miei. Io conosco la depressione, io ho conosciuto ed amato gente che ha scelto di uccidersi, ma io conosco anche questa nostra lurida societ?, questa immonda gerarchia di valori che non valgono un pezzo di vita: e penso e dico che nella logica di questo  star male della societ? dobbiamo cercare la spiegazione della morte cosiddetta volontaria. Quando muore qualcuno per propria mano, chiediamoci se abbiamo fatto nulla per evitare quella morte. Chiediamoci dove eravamo, mentre il nostro simile decideva che non voleva essere pi? nostro simile.  In questi giorni sto facendo una chiacchierata sul Diritto in una scuola di Orvieto: non immaginate quanto sia difficile spiegare che il cosiddetto Diritto di morire ? una conseguenza del mancato rispetto del Dovere di far amare la vita?  

Pubblicato il: 08/03/2003

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