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NOTIZIE CORSIVI

Chiamiamolo clochard

Fausto Cerulli

Chiamiamolo clochard, cos? possiamo fare finta che venga da un altro mondo e ci sentiamo meno in colpa. Ma se uno muore assiderato davanti alla stazione ferroviaria di Fabro, e nessuno si accorge di quella morte, e quando se ne accorge magari dice che quel tizio se l?? voluta; chi glielo ha fatto fare di stare al gelo, quando magari poteva stare al caldo in qualche casa amica, e magari prendersi un cioccolato bollente con la cannella.

Certo, uno che muore cos? aveva quella morte nel destino, e dunque laviamoci le mani, pilateggiamo, e dopo esserci lavate le mani magari le facciamo asciugare al tepore di un termosifone. Ma non ci sto. Quel senza casa non ? morto in una landa della Siberia, e non ? stato travolto da una slavina mentre sciava a Cortina. No: ? morto con atroce semplicit? in un paese abitato, in mezzo alle case, certo qualche lamento deve essergli uscito dalla bocca mentre il gelo gli rattrappiva il sangue nelle vene. D?accordo: la protezione civile era occupatissima, la neve era giunta improvvisa anche se nevicava ormai da dieci giorni, e le forze dell?ordine non possono essere sempre presenti per le strade di un piccolo paese, a due chilometri dall?autostrada del sole. Un senza casa in mezzo a molte case; come uno di quegli uccelli che vengono da chiss? dove a raccogliere molliche sulla terrazza della mia casa. Era un uomo, aveva i suoi pensieri, aveva i suoi sogni, aveva la sua disperazione.

Qualcuno mi ha detto che aveva scelto quel tipo di vita, gli piaceva dormire nelle sale d?attesa delle stazioni, era un vagante per vocazione. Io ho conosciuto molte di queste persone; nelle stazioni quando arrivava la sera: infagottati nelle sale d?aspetto di seconda classe, magari abbracciati ad un termosifone spento. Qualche volta sono stato anche io uno di loro: quando qualche disperazione di depresso mi impediva di tornare a casa, e decidevo di passare la notte nella sala d?aspetto di Stazione Termini o della Tiburtina: ad una certa ora l?aria diventava irrespirabile per l?odore dei corpi, qualche testa spuntava da un mucchio di cartoni, i pi? ricchi erano avvolti da una coperta stracciata.  Poi, all?una di notte, precisi come orologi svizzeri, arrivano agenti della polizia ferroviaria, urlavano sgombrate, la sala d?aspetto chiude, si riapre alle sette. I pi? esperti del mestiere di non avere casa andavano a rifugiarsi in qualche vagone arenato su un binario morto.

Io preferivo girare per Roma, al fresco della notte, magari mi passava l?ultima sbronza disperata. Io non sceglievo quella vita, era quella vita a scegliere me. Per questo la notizia di quella morte di freddo mi ha gelato il sangue nelle vene; mi sono sentito in quei panni troppo leggeri per quella notte, ho risentito l?angoscia di essere solo, un?angoscia che spesso mi ritorna negli incubi. E ho cominciato a pensare alla bestemmia di chi aveva parlato di clochard, e magari pensava ad un artista maledetto che amava passare le notti sotto i ponti della Senna.

Il clochard ? uno che tutto sommato si diverte, io ne ho conosciuti parecchi; parlano tra loro, sono una specie di comune: a Nizza conoscevo un professore universitario che aveva, lui s?, deciso di vivere quella vita. E poi ne ha scritto un romanzo di successo: e ho conosciuto anche qualche giornalista che si travestiva da barbone, e passava due o tre notti nelle sale d?aspetto insieme ai senza casa; e magari, essendo colto come sono i giornalisti, non diceva senza casa, ma homeless, che fa pi? fino; e poi scriveva articoli che si chiamavano di inchiesta e che erano atti di puro sciacallaggio. 

La persona che ? morta di freddo davanti alla stazione di Fabro, non era un clochard e neppure un barbone; anche se non lo conoscevo, so che era un uomo senza compagnia, un solitario per vocazione o per destino o per malasorte. Un uomo che viveva la sua solitudine, e non ditemi che era un vivere quello; non faccio lo psicologo, so appena qualche cosa di me stesso: ma so che un uomo che vive solo vive un rifiuto; e non cambia se ? lui che rifiuta gli altri o se sono gli altri che rifiutano lui. Un uomo che vive solo, anche se per propria decisione, ? sempre il sintomo di un malessere che non appartiene soltanto a lui, ma a tutti noi. E? questa mostruosa societ? che favorisce la solitudine; che la nutre di noncuranza, che la pone a paradigma di un futuro sempre pi? parcellizzato, ognuno nella propria nicchia, di potere o di impotenza. Magari diranno che qualcosa non funzionava bene nella testa di quel randagio magari a suo modo felice: e nessuno si chiede se non sia per caso questo nostro mondo cattivo ad avere le rotelle fuori posto, e se magari questa progressiva scelta di vivere e morire da soli non sia funzionale a questo sistema, dove cinque persone che stanno insieme costituiscono una adunata sediziosa, o una assemblea non autorizzata.  Ho letto su qualche giornale che le forze dell?ordine conoscevano bene quel poveretto, mi scusi la famiglia se lo chiamo cos?, e che addirittura qualche giorno prima lo avevano anche fermato per identificarlo.

Aveva i documenti in regola, la vita forse no: ma all?ordine interessano i documenti delle persone, non la loro vita. Non voglio dare la colpa a nessuno di preciso, ma a tutti nella loro disumanizzazione che ? anche mia. Qualche giorno fa i miei trentacinque lettori hanno avuto modo di conoscere il mio dolore sincero per la morte di Nerone. Lo stesso dolore che mi ferisce a questa notizia di un morto di freddo. Il freddo che lo ha ucciso ? stato il freddo di una notte fredda. Ma ? stato anche il freddo di questa nostra disumana freddezza. Quando un uomo ? solo, per scelta o per destino, tutti noi siamo soli, separati, divisi: e per colpa o per dolo.

Pubblicato il: 20/02/2012

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