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Riflessioni sulle ultime elezioni amministrative, ossia come non imparare dall'esperienza

Leonardo Riscaldati

I risultati dell'ultima tornata elettorale possono sembrare clamorosi. Sottolineo, possono sembrare. Possono apparirlo, secondo me, se non si ha la capacit? di comprendere le dinamiche sociali di un mondo che cambia, e il nuovo rapporto che si sta affermando, tra cittadino/elettore, il contesto e i suoi cambiamenti. Insomma, se manca la visione d'insieme.

Alcuni parititi esultano per la vittoria. Mi viene da sorridere. In realt? non capisco cosa abbiano da esultare. Se c'? una cosa che emerge con nettezza e chiarezza ? proprio che i partiti sono in profonda crisi, una crisi nerissima. Sono le persone, i singoli, che emergono.

Il processo alla base di questi ultimi avvenimenti, a livello di consecutio logica, secondo me, sta pi? o meno in questi termini: c'? la crisi, una crisi generale dalla quale si fatica a venire fuori, quindi chiunque governa se la vede brutta. Ma il cittadino se la passa ancora peggio, e non ha altro strumento per immaginare un cambiamento, se non quello di cambiare, appunto, chi lo governa. Allora i cittadini sperano che il cambiamento possa portare a novit? e si affidano a chi rappresenta nel proprio immaginario la novit? radicale. Chi rappresenta la novit? radicale, in questo contesto, vince. Parlo di persone, non di partiti.

Per?, ironia della sorte, anche la novit? radicale se la vedr? brutta, perch? la speranza senza la risoluzione del problema (spesso pi? grande dello stesso governante) e senza una buona relazione col cittadino servono a ben poco. Anzi contribuiscono alla sensazione di sconforto dell'elettore. Demotivazione, disillusione e infine rassegnazione. 

Il vero nodo (ma quando lo capiranno i politici?) ? la mancanza di relazione serrata con gli elettori, della mancante diffusione della cultura della partecipazione (perch? i cittadini non sono abituati a partecipare veramente, quindi ci vorr? tempo) e del loro coinvolgimento nelle scelte. Le oligarchie politiche si parlano tra di loro, cercano leader, propongono cose astratte, bipolarismi s?, bipolarismi no, alleanze, convergenze. Intrallazzano. Al cittadino di tutto questo non pu? importare di meno. Anzi, spesso crea fastidio.

Durante queste ultime elezioni ho sentito dire, specialmente a Milano, area PDL, dopo la sonora batosta della Moratti al primo turno: "abbiamo sbagliato, dovevamo parlare dei problemi della gente". Ecco, in questa frase ci sono tutti gli errori possibili, che denotano un gap culturale decisivo della classe politica. Il concetto non ? che bisogna parlare "dei" problemi degli elettori, immaginandoli come una platea passiva, come una spugna che sta l? ferma e che brama che il politico parli di lui, e poi solo in campagna elettorale; il nodo, quello vero, ? che bisogna dialogare "con" gli elettori dei loro problemi e delle soluzioni possibili e farlo in modo costante, durante l'intero mandato. Ascoltarli, coinvolgerli, dare loro motivazioni, e quando possibile (chiaramente non parlo di macroeconomia) costruire insieme a loro le proposte. Con questo metodo, anche se le situazioni sono cos? gravi da non poter essere al momento affrontate con efficacia, il cittadino comunque sa che ? stato fatto il possibile, e continua a riporre fiducia nel politico.

? cos? che nasce la fiducia, che si ottiene il coinvolgimento e la motivazione, per raggiungere l'obiettivo ultimo della preferenza, ossia sua maest? il voto. Senn? l'elettore si disaffeziona: puoi parlare dei suoi problemi quanto vuoi, magari nei salotti o nelle trasmissioni di approfondimento politico. Ma se il cittadino non partecipa gli cala l'attenzione, gli passa la voglia. Fa altro. E quindi non va a votare, tanto le cose che sente dire sono sempre quelle.

Lo vedo anche nella mia esperienza personale. Mi considero una persona che segue la politica in modo superiore alla media. Mi interessa e a volte anche mi appassiona. Ma poi guardo le trasmissioni in tv, vedo sempre le stesse facce, sento dire sempre le stesse cose e sempre dalle stesse persone, che dicono cose che spesso non mi interessano, che si parlano sopra, che sbraitano. A destra come a sinistra. Mi sto immunizzando. Mi annoio. E guardo altro, magari un bel film. Perch?? Semplice, perch? non sono coinvolto. Perch? i politici mi coinvolgono sempre di meno e sempre pi? raramente.

La politica non pu? pi? permettersi di immaginarsi come un compartimento stagno, autoreferenziale, e che, bene che vada, parla "dei" problemi della gente (notare l'autoreferenzialit? di questo modo di dire). Siamo nell'era dei social media, della conversazione orizzontale di massa. Ma i politici ancora sembrano non capirlo. O per mancanza di cultura "2.0" o per paura che il dialogo col cittadino, il suo coinvolgimento nelle scelte politiche e la sua partecipazione possano in qualche modo compromettere una serie di privilegi e garanzie; o ancora per paura di esporsi alle critiche esterne, che invece, se ben gestite possono diventare una forza proprulsiva di consolidamento della fiducia di grande efficacia.

Il problema ? che il paese reale si evolve molto pi? rapidamente dei politici e questa differenza di passo porta a tutte le conseguenze descritte. Sempre a livello logico: prima tra tutte l'inefficacia dei politici, la conseguente tensione verso il cambiamento, anche radicale, anche se non supportato da un realistica capacit? operativa; la scoperta che la speranza non ha prodotto risultati e la finale crescente disillusione nei confronti della politica in generale. E' un circolo vizioso, non c'? niente da fare.

La terapia (almeno quella che immagino io) per guarire da questa patologia che rischia di diventare non solo cronica, ma soprattutto degenerativa, fa uso di due medicine. La prima consiste nella costruzione del dialogo e nella diffusione della cultura della partecipazione. Cio? l'abituare il cittadino a partecipare, per giungere a un suo coinvolgimento nelle scelte, almeno quelle che lo riguardano da vicino, nel quotidiano, e che non richiedono competenze tecniche specifiche. Con questa medicina si ottiene la motivazione e il coinvolgimento, premesse fondamentali della fiducia. E chiaramente del voto. Secondo, la capacit? operativa di chi governa, nel tradurre in pratica le intenzioni e i progetti. Senn? ? inutile.

Le due medicine per? devono essere prese insieme, altrimenti la terapia risulta inefficace. Altrimenti, durante le prossime elezioni, sentiremo esultare altri partiti, che non si renderanno conto che magari hanno vinto, ma che per? i voti a livello assoluto presi sono comunque in calo, e che la preferenza nei loro confronti non deriva da un lavoro precedente che ha creato una fiducia importante, ma solo dalla delusione nei confronti di chi ha governato prima.

Pubblicato il: 01/06/2011

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