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Ricordo di Vincenzo Tordi, detto Cencio...

Fausto Cerulli

Di nuovo scrivo di un amico che ci lascia. Vincenzo Tordi. Io l?ho sempre chiamato Cencio, e Cencio sta scritto anche sull?annuncio in carta che annuncia la sua morte vera. Lo conoscevo dai tempi delle scuole, la sua famiglia era ed ? una famiglia importante, per quel che importa essere importanti quando si muore. Vincenzo ha avuto sempre una sua stranezza strana, voglio dire una stranezza diversa dalle solite stranezze che abbiamo tutti, e che ci fanno- per giusta sorte- unici sempre e inimitabili Era amico di Orfeo Achilli, e so che ragionavano dei massimi sistemi in lunghe notti alla Confaloniera. Per le persone pi? giovani, voglio ricordare che abitava in Via Garibaldi, quando era ragazzo: la sua casa allora si chiamava Palace Hotel, ora si chiana Aquila Bianca. Era l?albergo di famiglia, e gli fu casa. Per molti anni non ci siamo visti: poi ci ritrovammo a Milano, al tempo delle lotte studentesche ed operaie: ricordo che una mattina avevamo deciso, senza essere studenti n? operai, di portare volantini rivoluzionari nella nebbia dell?alba di Milano in qualche fabbrica che giustamente ci snobbava. Cencio salt? l?appuntamento antelucano: la sera ci telefon? da Orvieto, aveva scelto di tornare a casa. Ora so che non lo fece per paura o per pigrizia: penso che avesse capito che era, la nostra, una scelta velleitaria, quasi un modo di salvarci la faccia borghese in quei momenti di lotta. Noi nella nebbia, volantini in mano: lui in auto verso Orvieto, magari quel suo sorriso ironico e cordiale a farsi gioco di noi. Era una persona molto solitaria, anche se aveva molti amici: lui conservava sempre un qualche suo distacco, che poteva passare per freddezza, ma era soltanto un suo vagare altrove. Lo ricordo pieno di curiosit?, collezionista di tutto: dalle cianfrusaglie alle tele di Chiesa. Ricordo anche che era nemico della propriet? privata, fatta salva la sua. Una specie di comunista per interposta persona. Molto elegante, di eleganza sobria, e sempre molto felpato nell?andare. Spesso lo incontravo nella biblioteca vecchia; entrava, sfogliava qualche rivista, usciva silenzioso: penso che gli facesse piacere entrare in biblioteca per guardare quella foto enorme ed antica, di un suo avo, che aveva lasciato molti libri in donazione. La sua era una specie di ricognizione, quasi una ripresa di possesso.  Amava anche dipingere, ma non gli piaceva mettere in mostra le sue opere. Sul suo letto di morte, illuminato da un faretto, ho visto un suo quadro: una montagna che sembra tutte le montagne, di un rosso che sembra tutti i rossi. Mi sono chiesto spesso cosa lo avesse spinto a venire a vivere a Porano. Ora credo di saperlo: a Porano abitava una Rosina, esperta di erbe guaritrici. Rosina era stata per lui una sorta ti tata, quando lui abitava al Palace Hotel, dove la Rosina era cuoca. E spesso mi ? accaduto di incontrarlo a pranzo da Rosina, sulla via che porta al cimitero di Porano. Rosina gli voleva bene come si vuole bene a un  figlio. E lui lo sapeva, ed era una delle sue poche sicurezze. Forse per questo, dovendosi scegliere una casa dove vivere in solitudine, scelse una casa di Porano: per sentirsi vicino a Rosina, intanto morta. Una casa solare ed isolata: dalle finestre si vedeva Castel Rubello, cos? vicino che quasi si toccava. Poi, negli ultimi tempi, qualcuno aveva costruito una casa che gli copriva la vista del Castello. Ma lui non se ne crucciava pi? che tanto. Qualche volta scendeva in quel di Orvieto, ma sempre pi? raramente: quando stava ancora bene preferiva passare le sue giornate in riva al lago di Bolsena, nuotando nei suoi pensieri vagabondi, e pensando mentre vagava nel suo nuoto. Cos? ad Orvieto si faceva vedere poco, ed a Porano credo che frequentasse soltanto il bar che doveva essere del diavolo e poi fu Baraonda. Andai a trovarlo in Ospedale, al primo affacciarsi del suo male. E lo trovai stranamente rilassato: lento nei movimenti, ma elegante sempre.

Ricordo che si accarezzava la testa, forse stava accarezzando qualche suo pensiero. Da allora ? sempre stato molto silenzioso, ma gli faceva piacere se lo andavano a trovare gli amici: lui non parlava, raccoglieva le parole degli altri, forse le aggiungeva alle sue stravaganti collezioni. Mi viene in mente solo adesso quanto fosse cambiato il suo modo di sorridere: da ironico e quasi scettico, il suo sorriso degli ultimi giorni era diventato un sorriso molto dolce, quasi bonario. Sapeva che gli restava poco da vivere, e forse proprio per questo sorrideva. Come sorride chi non ha nulla da perdere, e allora si concede.

Ecco: voglio pensare che negli ultimi suoi giorni lui abbia sentito quel sorridere come una specie di missione. O magari l?ultimo affettuoso regalo che ci voleva lasciare. Ho visto il suo sorriso anche sul suo volto di morto. Composto sempre ed elegante. Quel sorriso indefinibile, quasi alla Gioconda, che ho visto sul volto dei troppi morti che ho visto. Io credo che sorridano perch? stanno in qualche pace vera. E non voglio sapere dove stanno: mi accontento di sapere che stanno dove noi no, noi non ancora. In un posto che ? senza posto: come scriveva Roland Barthes pensando alla madre appena morta: e immaginava che lei fosse ?dove lei non ??.

Pubblicato il: 02/01/2011

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