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NOTIZIE CORSIVI

Un normale suicidio in un mondo anormale

Fausto Cerulli

Un normale suicidio in un mondo anormale ha concluso la vita di un uomo che aveva poco vissuto, e male. Si ? ucciso perch? soltanto la morte pu? risolvere certi problemi, quando chi dovrebbe e potrebbe non fa nulla. Ho letto, in commento alla notizia del suicidio di Ricci, la raccomandazione a non strumentalizzare l?episodio. Non voglio sapere chi sia l?autore di questo commento; so soltanto che deve trattarsi di qualcuno che ha la coda di paglia, nella faccenda, come l?abbiamo tutti, nessuno escluso e me compreso. Ma io non ho paura di essere accusato di voler utilizzare l?episodio per qualche scopo politico. Io scrivo adesso perch? so che cosa significa avere accanto una persona con problemi psicofisici, e non trovare aiuti veri ma soltanto comprensione da coccodrillo, e sostegno formale delle istituzioni, che ? una brutta parola ma ? la parola che significa chi ha poteri e non vuole o non vuole avere anche doveri.

Io ho sofferto per anni di una grave forma di depressione; e mia moglie si ? trovata da sola ad affrontare il mio problema. Certo, abbiamo potuto rivolgerci alle strutture, ma le abbiamo trovate

impreparate ad affrontare il problema. Non per incapacit? delle persone, ma per insufficienza di mezzi,  per impossibilit? oggettiva di pensare ad una persona considerandola persona come problema collettivo. La struttura non pu? andare pi? in l? di una assistenza farmacologica, la pi? semplice, la pi? sbrigativa. Che attacca il sintomo, ma non aggredisce il fenomeno. Per cui

la persona che ha accanto un depresso grave, non pu? fare altro che imbottirlo dei farmaci prescritti, seguirlo nella sua sofferenza che diventa sofferenza del nucleo familiare. Intorno si fa il vuoto: gli amici si defilano, i poteri forti si mostrano poteri deboli.

Certo, esistono anche le case di cura, che non sono case e non curano; ma bombardano di medicine standard malati diversi uno dall?altro. E non hanno oggettivamente la capacit? di affrontare problemi psichici che sono evidentemente soggettivi. Manca la cultura dell?assistenza individualizzata, manca l?amore per la persona. E allora chi vuole veramente bene al malato se lo tiene accanto, mutila la propria esistenza, la dosa sui ritmi impossibili, spesso ingestibili, del malato. E se la malattia perdura nel tempo, diventa una epidemia del gruppo familiare. E? stata, per anni, la mia storia, e quella di mia moglie. Per questo sento di avere non il diritto ma il dovere di intervenire.

Io non conoscevo la persona che si ? uccisa, ma conoscevo il fratello: la persona ?difficile? le cui difficolt? sono diventate difficolt? di colui che alla fine si ? ucciso; leggo che si sarebbe ucciso per difficolt? materiali, e pu? darsi che anche la situazione economica abbia inciso sulla decisione. Mocio, da buon democristiano, dice che il Comune ha fatto tutto il possibile, perch?, dopo non breve tempo, ha dato ai due fratelli una casa popolare. Era tutto il possibile? Ma non prendiamoci in giro.

Io conosco il fratello di colui che si ? ucciso; un volto rotondo, gli occhi grandi e dolci, una specie di sorriso stampato sul viso, una strana voglia di parlare, anche di parlarmi; che io ho scansato,

sia perch? non ho gli strumenti per ascoltare nel senso di dare ascolto, sia perch? sono uno come tutti; e come tutti me ne frego degli altri; e non voglio essere coinvolto, e mi crogiolo nel bozzolo delle mie sofferenze facendone la Sofferenza somma, la Sofferenza con la esse maiuscola.

Quell?uomo che si ? ucciso alla fortezza dell?Albornoz si ? ucciso perch? non reggeva pi? il peso della malattia del fratello: e non lo dico perch? ho letto qualche sua ultima lettera, ma perch?

ho capito quanto posso io aver fatto soffrire la persona che mi ? stata accanto. E che si ? dovuta assumere, da sola e totalmente, la responsabilit? di gestire la malattia di un malato di anima.

Ora vi dico una verit? che conosco per averla vissuta: quando sei malato di anima pensi solo a te stesso, non ti rendi conto neppure di essere malato: e magari hai anche voglia di sorridere,

non sapendo che stai rubando il sorriso alla persona che ti sta accanto. Perch? chi ? malato nell?anima ha le pretese del malato, ma non ne ha l?anima: e dunque deve succhiare l?anima a qualcuno. A chi accetta di stargli accanto comunque, e si rifiuta di sbatterlo in qualcuna delle famose strutture che dovrebbero curare, e che sono sovvenzionate per curare; ma che non possono curare i mali dell?anima perch? le strutture sono meccanismi senza anima.

Altre volte mi ? capitato di parlare dei guasti della frammentazione sociale, della perdita del livello minimo di solidariet?. E mi ? capitato di dire che il ?diverso? ? diverso, e scomodo perch? diverso, in quanto la sua involontaria, momentanea o cronica, diversit? lo rende un individuo che non produce, e che neppure consuma, se non farmaci.

E allora la societ? condanna il diverso alla solitudine dell?isolamento; e chi accetta, per amore o comunque per dovere morale, di condividere quella solitudine, finisce per subire la stessa

condanna. Sono i guasti di una societ? che non sa essere sociale. In cui le persone contano solo se danno e per quello che danno. Una societ? che ha bisogno delle persone se e in quanto le

persone sono utili al meccanismo sociale.

Io conosco, per la interposta persona di chi mi ? stato accanto nella mia malattia d?anima, la sofferenza di chi patisce con il paziente, e non pu? permettersi di essere impaziente. E allora accade che la solitudine lo schiaccia; e in una mattina qualsiasi decide di allontanarsi dal proprio malato, per allontanarsi dalla malattia che sta invadendo anche lui. E si allontana bruscamente dalla vita, mentre magari il malato sorride di qualche suo sogno malato.

E tutto, intorno, ? deserto, ed inferno.

Pubblicato il: 11/11/2008

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